CCLXVII SEDUTA
(POMERIDIANA)
VENERDI' 30 LUGLIO 1993
Presidenza del Presidente FLORIS
indi
del Vicepresidente SERRENTI
INDICE
Proposta di legge Deiana - Tamponi - Manca - Mannoni - Ortu - Pusceddu - Merella - Cogodi - Fantola - Serra - Cocco - Mulas Maria Giovanna - Salis - Atzeni - Degortes - Casu - Giagu: "Sulla disciplina della lingua e della cultura della Sardegna" (410). (Continuazione della discussione):
USAI EDOARDO ..................
PUSCEDDU ...........................
COGODI .................................
MULAS MARIA GIOVANNA
MANCA ..................................
ORTU ......................................
AZZENA, Assessore della pubblica istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport
La seduta è aperta alle ore 17 e 02.
URRACI, Segretaria, dà lettura del processo verbale della seduta pomeridiana del 28 luglio 1993, che è approvato.
Continuazione della discussione della proposta di legge Deiana - Tamponi - Manca - Mannoni - Ortu - Pusceddu - Merella - Cogodi - Fantola - Serra - Cocco - Mulas Maria Giovanna - Salis - Atzeni - Degortes - Casu - Giagu: "Sulla disciplina della lingua e della cultura della Sardegna" (410)
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la continuazione della discussione della proposta di legge numero 410.
Ha domandato di parlare l'onorevole Tamponi. Ne ha facoltà.
TAMPONI (D.C.). Se i colleghi non hanno difficoltà, signor Presidente, sarebbe opportuno, a parere mio, convocare una Conferenza dei Capigruppo per disciplinare i lavori di questa sera e di domani.
PRESIDENTE. Se non ci sono opposizioni sospendiamo i lavori del Consiglio per quindici minuti e convochiamo la Conferenza dei Capigruppo.
(La seduta, sospesa alle ore 17 e 04, viene ripresa alle ore 17 e 18.)
PRESIDENTE. Proseguiamo la discussione generale della proposta di legge numero 410.
E' iscritto a parlare l'onorevole Edoardo Usai. Ne ha facoltà.
USAI EDOARDO (M.S.I.-D.N.). Signor Presidente, onorevoli colleghi, come molti di voi certamente sanno, il Gruppo del Movimento Sociale Italiano non ha contribuito alla redazione della proposta di legge numero 410, né ha firmato successivamente la proposta per profonde, insanabili divergenze con lo spirito e la filosofia che animano la legge e per il disegno politico che sta alla base di questa. Vi è da dire anche che la fretta e la precipitazione con cui l'argomento arriva oggi in Aula non fanno prevedere niente di buono per la nascita indolore di questa creatura. Le ragioni dell'opposizione del Gruppo a cui appartengo nascono da considerazioni di carattere linguistico, politico, pratico e non ultimo da considerazioni sull'opportunità di affrontare un provvedimento di tal fatta in questo momento. Per entrare subito in medias res, mi pare opportuno riflettere e far riflettere i colleghi, su cosa debba intendersi per lingua e che cosa per dialetto nell'accezione comune. Devoto e Oli, nel loro dizionario della lingua italiana, definiscono lingua "l'insieme delle convenzioni necessarie per la comunicazione orale tra i singoli consacrate dalla storia, dal prestigio degli autori, dal consenso dei componenti della comunità"; lo Zingarelli ancora sostiene che la lingua è il "sistema grammaticale o lessicale per mezzo del quale gli appartenenti ad una comunità comunicano tra loro"; l'Enciclopedia Garzanti definisce analogamente la lingua come "l'insieme di convenzioni che permettono di trasmettere informazioni per mezzo di suoni tra i membri della comunità"; infine il Dizionario della lingua italiana della UTET, definisce lingua "quel sistema orale, scritto e istituzionalizzato creato dai parlanti e dagli scrittori, idioma ufficiale parlato e letterario proprio di una nazione". Per contro Zingarelli definisce il dialetto "un sistema linguistico particolare usato in zone geograficamente limitate"; Devoto e Oli a loro volta sostengono che il dialetto è "il sistema linguistico di ambito geografico limitato che soddisfa alcuni aspetti, per esempio il popolare e l'usuale e non altri, per esempio il letterario e il tecnico", di quelle che sono le nostre esigenze espressive; per concludere il Grande dizionario del Battaglia dà ancora una definizione più calzante e più precisa del dialetto, definisce il dialetto come "la parlata propria di un ambiente geografico e culturale ristretto come la regione, la provincia, la città o anche il paese, contrapposta a un sistema linguistico affine per origine e sviluppo ma che, per diverse ragioni politiche, letterarie, geografiche eccetera, si è imposto come lingua letteraria e ufficiale". Una classificazione ampia dei dialetti vi è nel già citato Zingarelli che pone il sardo fra i dialetti italiani stabilendo anche un'elencazione dei ceppi principali nel logudorese, il campidanese, il gallurese e il sassarese. Un ulteriore lavoro di classificazione e di suddivisione è stato fatto partendo dalla considerazione che il sardo antico è sostanzialmente il logudorese comune; di parlate logudoresi oggi ne esistono varie: tre barbaricine, un logudorese settentrionale e un logudorese centrale. Si è differenziato fortemente dal logudorese il campidanese che, riferendosi anche alle parlate similari al campidanese, oggi è usato da oltre la metà dei sardi; infine il gallurese e il sassarese che si distaccano dalle parlate sarde già citate per la loro morfologia, che si può senz'altro chiamare continentale, per la sintassi sostanzialmente italiana e per il loro lessico, anche esso da definire continentale. Il sassarese, la cui base è un toscano corrotto con qualche traccia di genovese, si parla a Sassari, Porto Torres, Sorso etc. A questi si aggiungono il nuorese, che è la genuina parlata sarda, e quei dialetti misti che mischiano le caratteristiche di questi ceppi principali, cioè del campidanese e del logudorese. Perché, signor Presidente e colleghi, questa lunghissima premessa? Per sostenere che i dialetti in Sardegna sono numerosissimi, per dire che da paese a paese, da città a città, da località a località, vi è una varietà espressiva molto complessa, per dire che l'uso e l'insegnamento dei dialetti dividerebbe ancora i sardi mentre l'italiano li unisce e consente loro di comprendersi. Quando si parla di lingua sarda ci si dimentica di una realtà, e cioè che la Sardegna è una regione dai molti dialetti e, all'interno dei ceppi dilettali più consistenti, di innumerevoli varianti tra località e paesi spesso vicinissimi. Voglio ricordare ancora che in Sardegna esistono forse una decina di parlate locali che rendono obiettivamente difficile comunicare ai cittadini di zone diverse della Sardegna e che paradossalmente, ma non tanto paradossalmente, il momento della comunicazione accessibile a tutti e comprensibile per tutti è rappresentato dall'esprimersi nella lingua italiana. Se questa proposta di legge che abbiamo in discussione venisse approvata assisteremo alla proliferazione di una serie notevolissima di bilinguismi, paese per paese, città per città della Sardegna, con la lingua italiana a fare da collante, da unico elemento comune e aggregante e le parlate locali invece elementi di divisione e di campanile. Io lascio alla vostra fertile immaginazione pensare a che cosa accadrà negli uffici dei Comuni e della Regione, quando si troveranno faccia a faccia il funzionario che intende rispondere in dialetto e il cittadino di Milano o di Roma o di Napoli che chiede qualcosa, o ancora peggio quando il cittadino campidanese avrà a che fare col vigile urbano di Sassari o con l'impiegato della Gallura. A meno che non si voglia procedere ad una acculturazione forzata dei sardi, imponendo un diletto da fare imparare a tutti, o ancora peggio non si abbia l'intenzione di elaborare a tavolino una specie di esperanto dei dialetti sardi che trasformerebbe la Sardegna in una nuova torre di Babele degli anni 2000. E che dire poi della difficoltà, per non dire della impossibilità di elaborare discorsi complessi e moderni in un dialetto che ha un vocabolario estremamente povero e limitato, che rappresenta un linguaggio arcaico e cristallizzato di una società prevalentemente contadina e pastorale, che ha necessità di lunghe circonlocuzioni per rendere concetti elementari, che ha una scrittura sconosciuta e incomprensibile alla quasi totalità dei sardi, anche per coloro che conoscono una o più parlate locali? Il dialetto, per sua struttura, per sua connotazione, per il fatto che è una realtà linguistica che interessa ambiti limitati, è privo dei vocaboli necessari alla vita moderna. Il sardo non è una lingua tagliata, ma è una parlata quasi morta che, se dovesse rivivere, avrebbe necessità di robuste iniezioni di vocaboli della lingua italiana e di lingue straniere opportunamente modificate e sardizzate. Un'altra cosa sulla quale io dissento profondamente e che è poi la fonte da cui scaturisce la questione della cosiddetta lingua sarda, è la questione della presunta diversità dei sardi rispetto agli italiani e, da quanto mi è parso di capire, rispetto a tutto il resto delle popolazioni di questo mondo, quasi venissimo da un altro pianeta. Non voglio soffermarmi, così come mi è parso di comprendere in alcun interventi, su presunte differenziazioni genetiche che esisterebbero tra i sardi e gli altri popoli di questo mondo, perché sono tesi a teorie care al signor Rosenberg, non quel tale che dicono abbia (poi, poveretto, pare fosse anche innocente!) rivelato il segreto della bomba atomica ai russi, ma quel Rosenberg che era il teorico del razzismo biologico. Non voglio soffermarmi su queste presunte differenze genetiche, perché sarebbe ridicolo e allo stesso tempo folle, ma voglio dire che se qualcuno di voi avvertisse differenze sostanziali, al di là di quelle che sono le differenze che esistono tra le regioni di tutto il mondo, sarebbe necessario, cari colleghi, ricorrere allo psicologo (e mi limito a dire lo psicologo) perché saremmo in presenza di casi di razzismo mascherato, nel caso si pensasse ad una superiorità dei sardi rispetto a cittadini di altre regioni, o di un tentativo di nascondere un non confessato, inammissibile, non tollerabile complesso di inferiorità nei confronti degli altri italiani, che io mi rifiuto di prendere in considerazione. Quindi nessun istinto di prevaricazione nei confronti di alcuno, ma neppure nessun istinto piagnucoloso di autocommiserazione, di autoflagellazione, di rifiuto di un passato che ha visto la Sardegna essere parte importante, vorrei dire determinante, di quella Koinè che nasce qualche anno dopo il trattato di Utrecht del 1713 e che doveva portare poi allo Stato unitario, per il quale i sardi combatterono - lo ricordava ieri il collega Carmelo Porcu - in tutte le guerre di indipendenza e nel conflitto del 15-18 per trasformare quello che era il piccolo Regno di Sardegna nell'Italia unita, della quale la Sardegna era, è, e dovrà rimanere parte integrante e importante, e dove, a cavallo tra gli anni della prima guerra mondiale e della seconda guerra mondiale, si distinsero per impegno, per capacità, per intelligenza, coniugando alla perfezione il loro grande senso della nazione italiana con la loro sardità, Efisio Cao di San Marco, Paolo Pili ed Enrico Endrich. L'introduzione di un bilinguismo strisciante, l'ipotesi di fare assurgere le parlate locali al rango di lingua nasconde in sé il tentativo di eliminare una delle strutture portanti di quella che è l'unità nazionale che, con buona pace di Bossi, dei leghisti e di quelli che sono i loro amici sardi, è ancora, fino a quando non verrà abrogato l'articolo 5 della Costituzione, un dettato al quale tutti i cittadini italiani si devono attenere, un dettato che faceva dire al senatore Alessandro Manzoni nel 1868, quando si veniva configurando lo Stato unitario, che dopo l'unità d'armi e di leggi l'unità della lingua è quella che più serve a rendere stretta, sensibile e profittevole l'unità di una nazione. L'unità linguistica nella lingua italiana è la modernità civile e politica della Sardegna e dell'Italia; l'uso dei dialetti è l'arretratezza, è un ritorno al Medioevo, è un modo per istituzionalizzare l'incomunicabilità tra i cittadini. Questo avevo da dire, signor Presidente e colleghi, nel merito e sotto il profilo di quelle che sono le mie personali convinzioni.
Qualche altra brevissima considerazione merita il discorso relativo alla salvaguardia delle tradizioni, della memoria storica della Sardegna, quello dell'opportunità e tempestività della spesa da affrontare per attuare questa legge, quello della creazione di una serie di strutture che qualcuno stamattina, con un termine soft, ha chiamato nuova burocrazia e che consiste invece nella creazione di nuovi carrozzoni all'interno dei quali sistemare i soliti noti.
Quando si privilegia il discorso relativo alla lingua si rischia di perdere di vista ciò che deve essere maggiormente tutelato e preso in considerazione; cioè tutto quel patrimonio architettonico, storico, museale, di tradizioni che è il riferimento storico, che è la memoria storica, che è la consapevolezza delle nostre radici senza le quali gli individui e le comunità rischiano di perdere, questa volta sì, cari colleghi, la loro identità. I musei da tenere aperti, gli anfiteatri da restaurare e da aprire al pubblico, i complessi nuragici da salvare dal degrado e dai vandali, i centri storici da ristrutturare e da restituire ai cittadini, l'educare i nostri figli al rispetto e alla conoscenza della nostra storia, queste sono le cose sulle quali meditare prima di imporre per legge scelte non condivise dalla maggioranza dei sardi.
Un'ultima riflessione meritano, signor Presidente, il modo con il quale si sta tentando di dare vita all'ennesimo carrozzone clientelare e lottizzato, e i costi che la collettività dovrà sopportare in un momento di gravissima crisi sociale ed economica, con migliaia di famiglie sul lastrico, con prospettive tempestose per la stessa pace sociale. E cosa vuole dire se non creare un carrozzone, prevedere la creazione di questo Osservatorio, del quale non si è capito bene neppure la funzione, che nell'arco dei tre anni costerà 3 miliardi e 90 milioni? E che cosa dire degli interventi nel settore dei mezzi di comunicazione di massa per i quali nel 1994 si spenderanno 600 milioni e nel 1995 850 milioni; e che cosa dire per le convenzioni con le strutture esterne per le quali si spenderanno 500 milioni nel 1994 e 500 milioni nel 1995? E che dire dei contributi da dare oltre che all'università, a imprese, società e soggetti privati; 2 miliardi e 770 milioni nel 1994 e 10 miliardi nel 1995, e così via continuando!
Se non vi fossero, signor Presidente, altri motivi per non approvare questa legge io credo che queste ultime considerazioni possano indurre questo Consiglio, in un momento di resipiscenza e di saggezza, a soprassedere in questo particolare momento a una spesa ingiustificata, inopportuna e, consentitemelo, di dubbia destinazione.
PRESIDENTE. E' iscritto a parlare l'onorevole Pusceddu. Ne ha facoltà.
PUSCEDDU (P.S.D.I.). Signor Presidente, signori Assessori, colleghi del Consiglio, l'impoverimento della nostra cultura e del nostro linguaggio è un impoverimento della realtà in cui viviamo. Questa frase tratta dalle "Lezioni americane" di Italo Calvino mi ha fatto particolarmente riflettere e vorrei assumerla a guida di questo mio intervento nella discussione generale sulla proposta di legge di tutela e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna. L'impoverimento della cultura sarda, l'hanno sottolineato diversi oratori che mi hanno preceduto, è un dato di fatto; per usare un termine mutuato dall'etnologia, e che il collega Usai poco fa ha usato a sproposito, potremmo dire che nel corso dei secoli, a seguito di processi di dominazione, in Sardegna si è prodotto un fenomeno di acculturazione. Alla subalternità politica, economica e sociale ha fatto seguito una subalternità culturale con la progressiva acquisizione delle culture dominanti, per cui in Sardegna oggi non si pone tanto un problema di acculturazione quanto un problema di inculturazione, di recupero delle ragioni profonde della propria cultura e della propria identità. La sociolinguistica contemporanea insegna che quando due lingue si trovano in contatto una come lingua del potere politico e l'altra come lingua popolare, si scatena un conflitto linguistico che porta tendenzialmente alla scomparsa della lingua popolare. Oggi io non so cosa sia opportuno in Sardegna però il problema dovremmo porcelo tenendo presenti anche certe sperimentazioni che sono avvenute in altri paesi, e mi riferisco in proposito anche alla Catalogna dove la normalizzazione linguistica è avvenuta a seguito di un periodo di clandestinità dell'uso della lingua imposto dal regime franchista. La scuola, il sistema dei mass media e la pubblica amministrazione rappresentano oggi le armi più affilate per il taglio delle lingue; sono proprio questi infatti gli agenti di una progressiva esclusione dell'uso del sardo nel nostro sistema relazionale. Ma, se consideriamo la lingua un mezzo privilegiato per la trasmissione culturale, ci rendiamo conto che alla limitazione della lingua segue l'impoverimento della nostra cultura. I classici dell'antropologia culturale insistono proprio sul carattere acquisito della cultura, che è fondato su un processo di apprendimento. La cultura infatti si acquisisce per imitazione, per addestramento e per apprendimento. Se un bambino non sente parlate non parla, quindi trovo molto singolare il fatto che il collega Carmelo Porcu nel suo intervento dica che naturalmente una mamma si trovava nelle condizioni di doversi rivolgere al figlio parlando in italiano, io devo dire che è proprio attraverso il sistema relazionale che invece andrebbe recuperata la profondità del contenuto linguistico, anche perché ogni lingua ha uno spettro di interpretazione che va al di là di ciò che in altre lingue può essere tradotto. Io che mi considero un bilingue passivo, proprio in quanto appartengo forse a quella generazione che ha visto progressivamente l'eliminazione della lingua sarda, anche all'interno del nucleo familiare, trovo in effetti le difficoltà che avranno i miei figli anche nel comprendere, anche solo in termini passivi, come avviene oggi per me, la lingua sarda. Io ritengo che questo sia fonte per loro di una grossa deprivazione culturale, per cui nel discorso sulla lingua io ritengo che non dobbiamo attardarci in fumose interpretazioni da ultimo dei "bembisti" come ha fatto poc'anzi il collega Usai cercando di dare soluzioni che possono avere un'interpretazione accademica ma non riescono a cogliere la grave crisi culturale che è un fatto che colpisce le più giovani generazioni della nostra società sarda.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE SERRENTI
(Segue PUSCEDDU.) Oggi difatti in Sardegna ci troviamo nelle condizione di dover sostenere, e lo facciamo con questa legge, che non vuole essere una legge di disciplina, una legge che ha come unico obiettivo quello di normare, ma una legge che deve necessariamente promuovere, tutelare la lingua, la cultura sarda, perché assistiamo al fatto che la contrazione dell'uso della lingua ha come effetto immediato un impoverimento della cultura. La lingua sarda negli ultimi anni - è noto a tutti - ha subito un andamento recessivo. Io sono stato particolarmente colpito dai dati, che sono stati pubblicati non più di due mesi fa, di un'interessante ricerca, pubblicata da un istituto specializzato, sulla qualità della vita in Sardegna. Alla domanda "Lei si sente prima sardo e poi italiano?" ha risposto affermativamente solo il 28 per cento degli intervistati, e appena il 20 per cento dei giovani tra i 14 e i 18 anni. Solo il 7 per cento di questa categoria giovanile parla il sardo con tutti a fronte di circa il 25 per cento della popolazione sarda che ancora oggi usa prevalentemente la lingua sarda. Il 57 per cento di questi giovani non vorrebbe che venisse insegnata la lingua sarda nelle scuole, pur rendendosi disponibile per l'apprendimento della cultura e della storia della Sardegna, non foss'altro per eliminare quella distanza che separa anche in termini di mera conoscenza le giovani generazioni dai padri nobili della storia della Sardegna. Circa quattro sardi su cinque non sanno chi sia stato Francesco Ciusa, Antonio Pigliaru, Renzo Laconi, Luigi Crespellani, Ennio Porrino, tanto per citarne alcuni, e altri pensano che Eleonora D'Arborea si più una piazza che un personaggio storico. I dati che io ho voluto evidenziare nella loro nudità e nella loro crudezza evidenziano questa forte divaricazione di un atteggiamento che passa trasversalmente tra le generazioni e che ha più accentuate manifestazioni a seconda che si viva in piccoli comuni oppure in centri più popolati. In questo contesto va letto anche un altro dato che a mio parere è estremamente pericoloso: il 58 per cento dei sardi ritiene che con una maggiore autonomia in Sardegna non cambierebbe oggi niente o addirittura sarebbe un danno. Perché ho voluto citare questi dati? Innanzitutto perché devono farci riflettere, come dicevo, per quello che indicano, ma soprattutto perché testimoniano come, affrontando un problema che è di crisi culturale, necessariamente viene condizionata anche la soggettività politica delle nostre istituzioni, dell'esercizio del nostro potere autonomistico che vede una caduta verticale nella possibilità di riscatto e di successo per quanto riguarda la risoluzione dei problemi e dei bisogni della nostra isola e dei suoi residenti. Molto opportunamente, pertanto, il collega Piero Salis sottolineava ieri nel suo valido intervento, come alla subalternità culturale sia da ricollegare un sentimento di insicurezza di sé, una scarsa consapevolezza di sé. Infatti, perdita dell'identità, impoverimento culturale, sfiducia nel potere autonomistico, inteso come capacità di rispondere ai bisogni di fondo, sono fenomeni che oggi si intersecano e che dimostrano la profonda saldatura che esiste, come dicevo prima, tra crisi culturale, crisi economica e sfiducia politica. Per questo ritengo che il compito che questo Consiglio oggi si pone - al di là dei limiti propri di ogni legge che senz'altro può essere sempre perfettibile - sia di vitale e di estrema importanza.
Per rispondere alla crisi economica, alla crescente disoccupazione, alla chiusura delle fabbriche, alla desertificazione industriale, occorre una forte risposta politica, occorre un'alta concezione dell'esercizio del potere autonomistico, occorre quindi una forte identità culturale che riesca a saldare le lotte per il lavoro non in un contesto di generica solidarietà ma in una forte e chiara rivendicazione che deve essere di tutto un popolo. Ma, se accettiamo questo percorso, non possiamo non riconoscere che la questione culturale è la questione centrale oggi per lo sviluppo e il progresso della nostra Isola; sviluppo e progresso che passano attraverso la piena consapevolezza dei diritti dei sardi e delle possibilità di essere sé stessi sia nella sfera privata, nei rapporti di relazione all'interno della famiglia, della scuola, del mondo del lavoro, ma passano soprattutto attraverso la sfera e la dimensione pubblica. Non è necessario scomodare Malinowski per ricordare il nesso che lega la cultura e le istituzioni e il fatto che queste ultime siano sempre in rapporto con qualche bisogno fondamentale e che, dalla diversità delle risposte culturali ai medesimi bisogni primari, sorgano nuovi bisogni.
Il collega Cocco, nel suo brillante intervento, che per altro non è uscito fuori tema ma ha centrato proprio la necessità di questa saldatura profonda tra problematiche culturali e problematiche politiche, sottolineava come, per rispondere all'indebolimento dell'autonomia e della identità che la sottende, occorra rilanciare lo spirito pubblico. Io concordo con questa affermazione in quanto anch'io sono convinto che la situazione di crisi oggi delle democrazie occidentali sia caratterizzata proprio dallo svuotamento di questo contenuto critico della sfera pubblica e, per usare un termine di Jürgen Habermas, di questa rifeudalizzazione da parte di gruppi privati di interesse. Oggi, la funzione critica della sfera pubblica, che è indebolita senz'altro dai mass media e ancora più dell'attività integratrice dei partiti, ha necessità di quella che viene chiamata una ripoliticizzazione che si concretizzi attraverso un potere istituzionale che sia diretta risultante di una partecipazione attiva della comunità di riferimento. Solo così potremo saldare bisogni e interessi di una comunità e livello istituzionale.
Ed è in questa stretta correlazione tra questione culturale e questione politica, signor Presidente, colleghi del Consiglio che, a mio avviso, va approvata la chiave di lettura dei problemi della Sardegna. Non possiamo permetterci l'affievolimento della tensione autonomistica che è stata e dovrà continuare ad essere la costante dell'attività politica di questo Consiglio. Io non condivido le analisi frettolose di chi, anche di recente, ha visto nell'accelerazione dei processi di regionalizzazione che ha interessato gran parte delle forze politiche sarde un maldestro tentativo di riciclaggio dei partiti. Secondo me, questa è una interpretazione riduttiva perché non riesce a cogliere la profonda validità di una sperimentazione che, pur salvaguardando specificità ideali, faccia della identità e dell'autonomia una grande questione politica attorno a cui realizzare la discriminante per una risposta forte alla crisi della Sardegna. Oggi, una larga maggioranza sostiene il Governo regionale, una maggioranza che però vede escluse alcune forze politiche, una che interpreta la più genuina tradizione autonomistica sarda e un'altra che, pur nella sua breve esperienza organizzativa e politica, ha introdotto elementi di indubbia originalità che non possono essere elusi dal confronto politico. Il Gruppo socialdemocratico intende pertanto dire che attorno a questa legge, che qualcuno ha definito in grado di caratterizzare la legislatura ed altri hanno definito di profonda inutilità - poi mi soffermerò proprio su questa concezione dicotomica della legge che andiamo ad approvare - andrà a verificare la sensibilità su alcune precondizioni programmatiche foriere dell'evoluzione degli attuali rapporti politici. Non possiamo infatti consentire che, proprio nel momento in cui è più pressante la necessità di una risposta politica ai bisogni della identità, la politica dilegui e dimostri una profonda inadeguatezza senza comprendere la stretta correlazione tra tematiche etniche, tematiche culturali e tematiche politiche esistente nella nostra Isola. Questa legge, dopo anni di colpevoli ritardi, di assurde incomprensioni, di malintesi egoismi, può rappresentate oggi un terreno privilegiato di convergenza; infatti è una legge quadro che si sostanzia di una importante dichiarazione di principio. Recita infatti la finalità prevista all'articolo 1: "La Regione autonoma della Sardegna assume l'identità culturale del popolo sardo come bene primario da valorizzare e promuovere e individua nella sua evoluzione e nella sua crescita il presupposto fondamentale di ogni intervento volto ad attivare il progresso personale e sociale e i processi di sviluppo economico e di integrazione interna e internazionale. A tal fine garantisce, tutela e valorizza la libera e multiforme espressione delle identità, dei bisogni, del linguaggio e delle produzioni culturali in Sardegna".
Non mi soffermo a sottolineare l'importanza politica e programmatica di queste dichiarazioni di principio che sono chiare e inequivocabili nella loro solennità. A questa legge dovranno pertanto seguire le leggi di settore e occorreranno un'attenzione e una vigilanza massima nelle varie fasi di attuazione della legge evitando il rischio, sottolineato anche nel corso del dibattito, di una burocratizzazione. Non si tratta oggi di creare una versione regionale del Minculpop di nefasta memoria con l'erroneo presupposto che lo stato o la Regione debbano essere soggetti di un proprio indirizzo culturale. Le istituzioni e il Consiglio regionale, come massima Assemblea rappresentativa del popolo sardo, devono invece promuovere condizioni e possibilità per uno sviluppo libero della cultura che è strettamente legata all'identità. Nel nostro ordinamento, quindi, la cultura va intesa come una dimensione costitutiva della personalità umana e quindi della società civile, dell'intera comunità. La ponderazione degli argomenti da trattare in relazione al tempo concesso per l'intervento non mi consente di sviluppare, come avrei voluto, alcune considerazioni sul disposto dell'articolo 9 della Costituzione della Repubblica italiana, sulle insufficienze della previsione dell'articolo 117 riferita esclusivamente a competenze regionali in materia di musei e di biblioteche degli enti locali e neanche sulla deludente inadeguatezza in materia di beni culturali del D.P.R. delega 348 del 1979.
Per le medesime ragioni, non entrerò nel merito della legge, riservandomi di intervenire nel corso della discussione degli articoli, una discussione che si preannuncia senz'altro attenta e partecipata. Sottolineo solo che occorre a mio parere stare attenti a tre fondamentali questioni: la prima quella di non disperdere le risorse pubbliche attraverso una polverizzazione distributiva che non garantisca certi livelli di qualità delle attività che andranno promosse in campo culturale; la seconda che occorre evitare di concedere ampi spazi di discrezionalità nella programmazione e nelle scelte; la terza che occorre forse ripensare in effetti il sistema delle incentivazioni economiche che, nel nostro sistema regionale, è datato ormai da lungo tempo perché risale agli anni '50. Infine nell'esercizio dei poteri derivanti dell'articolo 5 dello Statuto le attività di integrazione andranno sviluppate in coerenza con gli obiettivi della legge. Io avevo una preoccupazione, pensavo alla pericolosità di un eccesso di adesioni alla legge, infatti sono convinto che una legge che accontenti tutti e non scontenti nessuno faccia paura perché, soprattutto quando si parla di cultura, è bene che emergano delle differenze, e anche in quest'Aula tra ieri e oggi si sono levate delle voci contrarie. Tra queste voci l'ultima, quella del collega Usai, che in termini preoccupati si interroga su quello che accadrà, afflitto da questa "sindrome di Babele" che potrà imperversare in Sardegna se ci sarà questa acculturazione forzata dei sardi come lui ha detto, questa immissione forzata delle varie parlate in tutto il sistema relazionale e nei vari aspetti della vita sociale in Sardegna. Io ritengo che, parlando di cultura e di lingua, occorre non avere una visione romantica della cultura sarda e neanche una visione da "piccolo mondo antico" così suggestiva, né tanto mento però avere una visione da collezionista antiquario dei segni della nostra civiltà. Occorre invece comprendere quel nesso che, dicevo prima, attraversa l'identità, la cultura del popolo sardo, che ne fa oggi, come questione culturale, una questione centrale del nostro dibattito politico.
PRESIDENTE. E' iscritto a parlare l'onorevole Cogodi. Ne ha facoltà.
COGODI (Rinascita e Sardismo). Signor Presidente, io dichiaro subito che intendo rinunciare all'intervento di merito che avevo pensato di svolgere in sede di discussione generale e ciò per due ordini di motivi: il primo, il più rilevante, è che l'intervento che è stato svolto nella prima parte del dibattito dal collega onorevole Piero Marras, è un intervento che tutti noi, consiglieri del Gruppo Rinascita e Sardismo, intendiamo assumere come riferimento politico culturale che interamente condividiamo, che diversi colleghi e diversi settori del Consiglio hanno apprezzato e quindi in questa fase è sufficiente per me richiamare e sottolineare l'impostazione politica e il taglio culturale dell'intervento e del contributo che noi intendiamo dare, che abbiamo già dato e che ci riserviamo di dare ancora nel corso dell'esame degli articoli della legge. La seconda ragione che mi induce a tagliare corto, se non proprio a rinunciare interamente all'intervento, è una preoccupazione che credo non sia solo mia, che potrebbe anche essere una protesta (ma la protesta non è più di moda) diciamo una segnalazione, per il fatto che il Consiglio regionale, la Regione nel suo insieme, non è capace ancora una volta di meritare sufficiente apprezzamento. Non è ammissibile che su una questione di tale rilevanza, per quante colpe e quanti demeriti possa avere la cosiddetta classe politica, per quanto assenti o almeno lontane siano le istituzioni dai bisogni primari della gente, vi sia una diserzione generalizzata del sistema informativo sui lavori del Consiglio regionale. Parlo del sistema informativo perché esiste, io non parlo di carenza o di assenza di informazione, l'informazione c'è ed è quella che si vuole, quella che vogliono quelli che dispongono, che possiedono, che dirigono, che comprano e vendono i mezzi di informazione. Io stesso sono critico, e i colleghi mi scuseranno, sul modo di essere della politica e della politica regionale in ispecie, critico e autocritico, tuttavia non accetto il fatto che la politica regionale in questa giornata, al popolo sardo sia rappresentata da pagine intere dei giornali o dai servizi televisivi sull'assessore Marrosu che vuol mandare via tutti i dirigenti regionali della D.C. di Cagliari o da un'altra pagina intera sul collega Marteddu che vuole cacciare via tutti i dirigenti democristiani di Nuoro. Questa è oggi la politica regionale, per il popolo, questa è la qualità dell'informazione. Non sto criticando né il collega Marteddu né l'assessore Marrosu ma questo sa il popolo sardo oggi della politica regionale e non sa nulla della legge della cultura e della lingua, della qualità degli interventi, dei contributi che si danno, e l'informazione non è uno dei pilastri fondamentali della cultura? Che cos'è una cultura fondata sulla disinformazione cioè sulla ignoranza? E' una sottocultura, è una derivazione, è una imposizione ed è esattamente la subalternità, che si vive a livelli più ampi e che si pratica nei modi reali attraverso cui si svolge la vita politica ma anche la vita economica in questa nostra regione. Dice il detto popolare su chi no iscidi est fradi de chini no bidi. Chi non sa non vede, è cieco. E c'è troppa gente in questa nostra regione che vuole che il popolo non veda, o che veda solo quello che corrisponde agli obiettivi e, mi sia consentito, agli interessi che debbono essere tutelati. Per molti di questi signori - perché esistono ancora i signori e non esistono solo i signori delle guerre o i signori delle tessere, esistono anche i signori delle televisioni, i signori dei giornali, i signori delle banche, della finanza, degli affari, esistono tanti signori - per questi signori la Regione non è che non esista, esiste come cassa, esiste come connessione con le banche, esiste come mutuo o come contributo per quanto resta, come appalto, concessione, elargizione, pubblicità più o meno istituzionale, corruzione consumata o tentata. La criticano per ottenere di più. Dico cose impegnative ma le dico con quella amarezza e con quella preoccupazione che dovrebbero essere di molti di noi e penso lo siano. Il fatto che questo problema peraltro in qualche modo aleggi in quest'Aula ma che non ce lo siamo posto può essere un'aggravante non certamente una scusante. Ci sarebbe da chiedere anche come funziona il nostro sistema informativo, la struttura informativa della Regione, perché la Regione ha strutture pensate e organizzate per agevolare anche l'informazione. Potremmo anche pensare a come ci si è posti il problema del momento della discussione, della stagione, del lasciare questo argomento alla fine della tornata consiliare, sotto le calure di agosto e se in questo non ci sia un disegno almeno recondito di liquidare così questo argomento. Può essere quello che si vuole ma una questione di questa natura - che non è solo questione di lingua ma è questione di cultura, che non è solo questione di letteratura ma anche di cultura scientifica quindi di innovazione, di sviluppo, di possibilità di crescita - non può essere rinchiusa tra quattro mura o in questo emiciclo. Ho utilizzato anche troppo tempo non intervenendo nel merito della legge. Avrei sicuramente voluto parlare, e ci saranno altre occasioni, di tante cose di estrema rilevanza che sono state trattate o comunque affacciate in questa discussione generale, del rapporto fra lingua e cultura, del rapporto fra cultura e sviluppo, del rapporto tra cultura e autonomia, del rapporto tra mezzi e fini, dell'investimento necessario in cultura che è investimento per lo sviluppo, e non è denaro sprecato come qualcuno teme e quant'altro. Io auspico solamente che altri contributi, importanti di sicuro, come importanti sono stati quelli che già si sono registrati, servano ancora a migliorare intanto l'idea dello strumento legge che si vorrebbe avere, e poi per quanto possibile anche la strumentazione legislativa che dovrebbe tradurre questa idea importante. Per parte nostra non mancherà anche nella fase successiva il contributo di merito. Allo stato delle cose, per queste ragioni, rinuncio a svolgere l'intervento che avevo previsto. La prima e più importante ragione è che noi riteniamo di aver già dato il nostro contributo e a quello principalmente ci riferiamo. La seconda è la preoccupazione profonda e l'esigenza di esprimere una protesta per la situazione che ho evidenziato.
PRESIDENTE. E' iscritta a parlare l'onorevole Maria Giovanna Mulas. Ne ha facoltà.
MULAS MARIA GIOVANNA (P.S.I.). Il dibattito sulla lingua e sulla cultura sarda ha fatto emergere, signor Presidente, due interrogativi. Il primo è questo: perché oggi, dopo 45 anni di mancata attuazione dei principi ispiratori della legge costitutiva dell'autonomia del popolo sardo, giunge a maturazione l'esigenza di una proposta di legge sulla lingua e sulla cultura? E ancora, quale lingua? Quale cultura? E non è che per caso viene prima la lingua e poi la cultura; come se le due cose dovessero essere scisse. La verità è che mentre per la cultura sarda, spesso con una accezione più di usanza che di cultura nella sua esplicazione più vasta, si era d'accordo, tutto diventa più difficile e complesso quando si affronta il problema della lingua, perché la lingua è una cosa viva, batte sul dente che fa male e qui pare che il dente faccia ancora molto male. E quale lingua? Credo si possa rispondere "la lingua che parla la gente"; dunque la lingua nella sua varietà locale. La legge dice questo. Non dice che si debba definire oggi una Koinè. Le lingue, soprattutto quelle orali, non hanno mai uno standard, anche se in realtà sono più ricche di quelle standardizzate. Non possiamo far torto ai sardi (lo dico ai colleghi che in questo senso sono intervenuti), solo perché manca una Koinè riconosciuta. Chi ha appena letto, pur non essendo un linguista, di questa problematica, sa benissimo che la Koinè si forma quando un popolo è libero autonomo, quando nasce una nazione unitaria; sa che la Koinè è un lento processo di elaborazione politica, sociale, culturale, amministrativa; sa che la lingua è la spia di un avvenuto processo unitario a tutti i livelli. La Koinè si forma là dove c'è una capitale, dove si è costituita una nazione. E dunque si fa colpa ai sardi di quello che nessuna lingua minoritaria ha, ma soprattutto si fa colpa alla Sardegna di non essere diventata nazione. Ma questo discorso credo ci porterebbe lontano, investe il ruolo di una borghesia sarda chiusa in se stessa, che non ha saputo diventare classe dirigente e di governo del destino di un popolo e che ha consentito quattro secoli di dominazione.
La lingua sarda, nata prima dell'italiano, si è dispersa come lingua unitaria quando si è cercato di smembrare il popolo sardo, quando si è cercato di disperderlo e soprattutto di dominarlo. Persa l'unità politica si è persa l'unità linguistica, anche se le diverse parlate locali non sono di per se stesse negative. Noi in Sardegna abbiamo una grande varietà di costumi, ognuno ha la sua ricchezza, i suoi colori, la sua foggia: è il segno delle diverse realtà locali. E allora quale lingua? Riaffermiamo che non avrebbe senso operare ora delle forzature perché noi riproporremmo attraverso una Koinè imposta un inutile atto di arroganza. La Koinè è il risultato di un lungo lavoro di linguaggio, di scrittura, di comunicazione. Nel dibattito è emerso un secondo interrogativo: perché proprio oggi pressati come siamo da problemi drammatici, quali quelli dell'occupazione, della crisi economica, dei problemi dello sviluppo, la questione della lingua e della cultura è posta anche nel programma della Giunta come una delle priorità su cui misurare la volontà politica del Consiglio e dell'Amministrazione regionale?
Credo che sarebbe superficiale, signor Presidente, contrapporre le urgenze dei problemi di vita e di lavoro della comunità sarda alle esigenze cui questa legge tenta di dare risposta. Non credo che l'onorevole Kikita Serra, nel suo intervento, considerasse antitetiche due questioni che sono davvero nodali nel nostro sviluppo: cultura e lavoro, cultura ed economia.
Io sono invece convinta che proprio dentro una concezione culturale nuova che privilegi il percorso della consapevolezza di sé, che favorisca processi di crescita umana e sociale e formi cittadini liberi e creativi, può esserci una risposta per un futuro diverso, la risposta di un popolo che decide della propria sorte e del proprio destino, che rimuove le proprie debolezze, che ha, insieme alla coscienza di sé, la capacità di credere in se stesso. Purtroppo noi siamo in grande ritardo; siamo in ritardo nel consentire e favorire l'uso democratico delle proprie radici, della propria lingua, del senso di appartenenza dei cittadini sardi.
Tutta l'Europa e il mondo si muovono nel senso delle etnie e quando le etnie vengono soffocate si scatena la violenza, si accentua e si favorisce il separatismo di chi non si sente integrato. E se noi oggi, per paura degli slogan che lancia la Lega, degli slogan populistici, avessimo paura di affrontare il problema della lingua e mettessimo in antitesi l'italiano e il sardo, la Sardegna e l'Italia (su questo non mi soffermo perché l'ha fatto molto bene il collega Cocco ieri e poi altri colleghi che mi hanno preceduto), noi commetteremo un grande errore. La legge sulla lingua e sulla cultura è un atto dovuto, come diceva ieri l'onorevole Salis, è un impegno politico e culturale che la Regione deve assumere nei confronti del popolo sardo. Non ha solo un carattere di settore, riguarda invece lo sviluppo generale e specifico della società sarda, tocca cioè sia la prospettiva di cambiamento e di maggiore coscienza del processo di trasformazione della Sardegna, sia un nuovo orientamento dei settori della scuola, della formazione culturale, della comunicazione sociale.
La legge non abbraccia tutto: poteva essere una legge quadro, forse più compiuta, onorevole Selis, e però una legge non può mai comprendere tutto. Sicuramente c'è anche qualche errore, ma nessuna legge è una gabbia di ferro. Io credo che possiamo migliorarla, abbiamo il dovere di migliorarla, per quanto possibile, ma prima abbiamo il dovere di approvarla, di applicarla e di verificarla immediatamente. Abbiamo una serie di leggi che perdurano nel tempo e che talvolta, per mancanza di modifiche e aggiornamenti, non producono più risultati efficaci; ci siamo resi conto che la legge 17 non era una legge capace di dare risposte ai problemi della cultura in Sardegna; ci siamo resi conto che la Sardegna non ha una politica culturale e in definitiva non abbiamo saputo dare risposte valide a questa esigenza e a questioni di così grande rilevanza culturale. Noi lasciamo che le leggi continuino ad essere applicate, senza avere il coraggio di rivederle e aggiornarle. I principi ispiratori della legge in discussione, che assume l'identità e la cultura del popolo sardo come bene primario da valorizzare e promuovere, affermano che la lingua, la storia, tutto il patrimonio comunitario sono beni ai quali si dà senso e valenza positiva nell'accezione più moderna e aperta, e questo alla luce della più aggiornata ricerca sociale, antropologica, psicolinguistica. Non vi è chi non sappia quanto e quale dibattito si è aperto in questi anni rispetto a queste problematiche.
La legge che noi dovremmo approvare non riguarda soltanto la difesa e la tutela di un patrimonio storico e linguistico, non pone soltanto la questione delle minoranze etniche e delle lingue minoritarie in maniera più decisiva, affronta il problema fondamentale dello sviluppo culturale ed economico della Sardegna. Economia e cultura sono cose concrete, sono produzione materiale, non possono che partire da una reale condizione di risorse locali, di saperi locali, di linguaggi locali. Certo il termine locale può spaventare, quasi fosse restrittivo, settoriale, chiuso, come se fosse sinonimo di localistico, ma noi non gli attribuiamo tale significato. Sulla questione della lingua, sulla questione dei diritti anche linguistici delle minoranze noi abbiamo padri nobili, già citati per altro, come è stato fatto per la lettera di Gramsci; su questa lettera io ho fatto riflettere decine e decine di allievi a scuola e, grazie a questa lettera, molti ragazzi non si sono vergognati di parlare il sardo. Ci conforta avere padri nobili, ci sono studi, ci sono scienze umane, dall'antropologia alla linguistica, alla sociologia più attuale che agganciano il problema dell'identità ai temi culturali più profondi, a ciò che è locale e non localistico. E del resto Emilio Lussu, proprio mentre esaltava il contributo dato dai fanti della Brigata Sassari all'unità nazionale, proponeva temi dell'autonomia e del sardismo. Oggi si sta precisando un nuovo rapporto fra locale e mondiale, è un processo dialettico che valorizza entrambi i termini e li esalta nella relazione positiva, negli effetti di confronto. Il locale, da solo, è regressione, chiusura, isolamento senza prospettive storiche, il mondiale da solo è una categoria astratta che si concretizza nella sua pratica di omologazione e quindi anche nei rischi di colonizzazione. Ogni processo di sviluppo, invece, presuppone un partire dalla nostra condizione storica per misurarci con orizzonti più vasti e complessi ed eventualmente per operare un radicale cambiamento storico. Allora questa legge riafferma sì il concetto di identità ma punta soprattutto su un altro concetto che è quello della differenza. Se l'identità non è un passivo guardare a se stessi, se l'identità è una ricerca di sé, se è una scommessa con il divenire storico non può evitare l'obbligo del confronto con altre identità. E questo dice anche l'articolo primo della legge come bene sottolineava il collega Pusceddu: la Regione tutela l'identità dei sardi ma tutela anche l'identità e i linguaggi di quei cittadini o di quei gruppi di cittadini che in Sardegna vivono, lavorano e si confrontano fra loro. E questa è una conquista importante per chi ci voglia accusare di localismo; altro che localismo, è lo sguardo rivolto all'Europa; è uno sguardo ben più ampio rispetto ai nostri confini. Allora, se è d'obbligo il confronto con altre identità, se si misura una differenza, se si privilegia un valore differenziale che è poi la specificità, il genio di un popolo, solo allora l'obiettivo di valorizzare "il locale" può diventare percorso per lo sviluppo. La lingua e la cultura vanno dunque viste come un patrimonio di investimento, come risorsa che produce sviluppo. Lingua e cultura sono inscindibili fra loro, ecco perché non mi chiedo che cosa deve venire prima e se un aspetto della nostra cultura deve prevalere sull'altro, perché da come parliamo, da una reale pratica di lavoro e di conoscenza, dai modi e dai mezzi di comunicare, da una rete di sentimenti e simboli, nasce e si costituisce quella che chiamiamo realtà, con il nostro linguaggio. Questo rapporto normale tra noi e il mondo è stato bloccato e deviato in Sardegna da molti secoli di colonialismo. E' venuto il momento di toglierci di dosso questi vincoli, di liberarci dalle incrostazioni di una storia subita più che agita in proprio. Questo è il compito storico che il popolo sardo si aspetta dai suoi politici con scelte chiare di politica culturale, di politica economica. Il patrimonio della lingua e della cultura sarda appartiene a tutti noi e al popolo che lo ha prodotto in secoli di storia. Questo è anche il messaggio, questa è anche la lezione di un intellettuale raffinato come Michelangelo Pira che scrive "Sos Sinnos" in bittese e contemporaneamente con la sua opera "La rivolta dell'oggetto" si confronta con la filosofia del linguaggio e della comunicazione di McLuhan. Allora parlare di lingua e di cultura sarda in questi termini è ben altro che un problema da intellettuali di provincia. E' mia profonda convinzione, tra l'altro, che una nuova stagione culturale in Sardegna può nascere solo da una intelligente e consapevole collaborazione tra la classe politica, gli intellettuali sardi e la gente, i cittadini in una nuova esperienza bilingue e biculturale. Questa l'alleanza nuova, non quella delle convenzioni. Questo deve essere il raffronto culturale, questa deve essere la capacità che noi dobbiamo esprimere nel momento in cui, pieni di dubbi e di timori, approviamo una legge ma creiamo anche una prospettiva.
L'onorevole Francesco Cocco nel suo intervento ha sottolineato la tradizione della cultura socialista in difesa delle minoranze. Ebbene, io a questa tradizione mi ispiro, a questa tradizione si è ispirato il Gruppo socialista nel momento in cui ha voluto porre la questione della lingua e della cultura. E' la tradizione di Loris Fortuna, di Gaetano Arfé, di Sebastiano Dessanay per altro ripresa e riproposta dallo stesso Arfé nel Parlamento europeo con la Carta dei diritti delle minoranze, che veniva citata stamattina e alla quale sono seguiti il rapporto Kuypers e il rapporto Kittilea.
E' la storia, è l'evoluzione verso una sensibilità nuova che in Europa e nel mondo si sta sviluppando rispetto a queste problematiche. Questa sensibilità nasce dal fatto che le culture di minoranza e le identità regionali sono una ricchezza, sono concepite come positività perché in relazione alla propria storia e alla cultura del popolo; proprio perché sono capaci di avviare reali processi innovativi e portare contributi originali che arricchiscono la cultura nazionale, di linguaggi, di esperienze, di tradizioni, di saperi, di storia ma sono anche l'espressione del diritto alla propria soggettività e alla possibilità di parlare nella lingua madre.
Tutti noi, tutti i Gruppi, tutti i soggetti politici che si sono occupati di questo problema abbiano compiuto uno sforzo per cercare di trovare il massimo di unità possibile rispetto ad un argomento così importante. Oggi c'è un patrimonio di conquiste comuni anche all'interno del Consiglio regionale (al di là del fatto che questo dibattito purtroppo si svolge in un momento di stanchezza). C'è la consapevolezza, maturata all'interno di tutte le forze politiche, di dover dare alla Regione un ruolo diverso, un compito guida nel processo di programmazione e di unificazione culturale. E questa legge è il risultato di questo sforzo congiunto; il lavoro della Commissione è stato un lavoro di sintesi ed anche, perché no, un necessario compromesso. Il risultato di questo sforzo in una materia così delicata può essere ancora migliorato, ma non dovrebbe essere snaturato, e soprattutto dovrebbe essere esaminato con mente libera da paure e pregiudizi. Certamente si è avvertito in questo dibattito qualche pregiudizio, sappiamo di registrare un ritardo e siamo preoccupati del fatto che la Sardegna non è estranea ad una crisi di civiltà, ad una crisi che si esprime nella contraddizione di linguaggio, di comportamenti, di valori, nella produzione culturale ed economica, nella comunicazione sociale. Stiamo correndo il rischio che il vissuto di un popolo, un insieme di linguaggi, di saperi, di modelli di lavoro, di produzione, di segni, di codici che per secoli hanno espresso il nesso profondo tra cultura e civiltà, senza la necessaria mediazione culturale, rischiano di diventare consumismo, rischiano di diventare semplice folklore. Una cosa è la cultura vissuta, altra cosa è la cultura rappresentata. Allora la nostra battaglia non può e non deve essere per un modello culturale statico e perdente, per una concezione solamente contemplativa; è indispensabile un recupero critico della tradizione che superi la storica frammentazione della nostra cultura e la proponga e la renda elemento portante del nostro progetto di sviluppo complessivo. Oltre che da queste convinzioni di carattere profondo la legge è necessitata da diversi ordini di esigenze e di motivi che sono stati richiamati e analizzati anche dai colleghi che mi hanno preceduto. Vorrei richiamarne solo alcuni: il sistema scolastico inadeguato e uniforme con preoccupanti dati statistici sulla dispersione scolastica. Il collega Porcu citava Lula e Orune privilegiando memorie nostalgiche, ma purtroppo le statistiche ci parlano di un 34,7 per cento di alunni che non completano le scuole dell'obbligo ad Orgosolo, 31 per cento a Sarule, 37,8 per cento a Lula, 46,8 per cento a Mamoiada e così in molti altri paesi e ciò avviene proprio là dove più diffuso è l'uso della lingua madre e là dove purtroppo, niente o poco si è fatto perché il bambino, soprattutto nei primi anni di ingresso nella scuola, non si sentisse un estraneo.
Abbiamo un sistema scolastico inadeguato e uniforme che non si preoccupa dei bisogni culturali diffusi ed emergenti. Abbiamo leggi che privilegiano le spese della Regione, non i progetti culturali, non la raccolta di quelle che sono le esigenze e i fermenti che provengono da una società sarda in rapida trasformazione. Mancano terminali conoscitivi capaci di indicare l'offerta culturale, i consumi, i bisogni di strutture e di spazi in una società modernizzata, guidata esclusivamente dal circuito multimediale, da una cultura egemone di fronte alla quale la cultura di minoranza è subalterna. C'è una serie frammentata di codici e di comportamenti, ai quali occorre dare una risposta politica e un piano di intervento della Regione che dia pari opportunità espressive alle lingue e alle culture in contatto. Occorre un progetto di politica culturale complessiva, per far sì che le diverse esperienze delle persone, dei gruppi, i diversi linguaggi con cui i mondi vitali di queste persone e di questi gruppi si esprimono possano essere messi a confronto, possano comunicare, possano interagire. Lo strumento fondamentale per attuare la legge per far sì che un progetto culturale si realizzi, è anzitutto il mondo della scuola. Noi l'abbiamo considerata luogo privilegiato, luogo di apprendimento, ma anche istituzione in cui l'espressione del bambino deve essere valorizzata, deve crescere, ampliarsi, arricchirsi: una scuola che parta dalla lingua e dalla cultura del bambino per inserirsi pienamente nel raffronto e nel confronto con una cultura più vasta di quella locale. Si pone anche la questione degli strumenti della comunicazione sociale: sono i mass media, gli spazi delle opportunità culturali, della comunicazione più immediata e noi non possiamo trascurarli in una legge anche se la problematica vera è rinviata a quelle specifiche leggi di settore. C'è inoltre un lavoro tutto nuovo da compiere che è di analisi, di raccolta di dati, di comprensione, di rilevazione di bisogni, di aspettative; occorrono operatori motivati e competenti che sappiano e vogliano fare tutto ciò ed è bene non attendere oltre per salvare quanto resta di un immenso repertorio linguistico e culturale che rischia di perdersi definitivamente. Siamo anche convinti che c'è un problema, che esiste una preoccupazione: la consapevolezza che nessuna legge, nemmeno la più perfetta potrebbe ridare vigore e restituire le funzioni perdute alla lingua sarda, ad una lingua che non si parlasse più, né potrebbe una legge riproporre codici e comportamenti che il corso della storia ha inevitabilmente mutato; né, come dice il linguista Leonardo Sole, si può parlare di lingua e di cultura come qualcosa che esiste separatamente dal mondo dell'economia e del lavoro e in genere delle relazioni sociali. Non esiste nulla che possa chiamarsi lingua né cultura al di là e al di fuori della prassi comunicativa e lavorativa quotidiana. Questi sono i problemi che abbiamo di fronte. L'errore in tutti questi anni è stato quello di rimuovere il problema della lingua; era più facile, come dicevo all'inizio, parlare genericamente di cultura, come se cultura e lingua, linguaggi e simboli, memorie e produzioni non fossero portate a sintesi dal fatto stesso di esprimersi. Spesso la scuola delle bacchettate sulle mani ai ragazzi, fin dal loro primo ingresso a scuola purtroppo ha causato in molti di loro un senso di mutilazione e di inferiorità, di scarsa fiducia in sé stessi. Eppure già nel 1953, quando ancora la lingua si parlava ed era viva in Sardegna, l'Unesco affermava che la scolarizzazione deve essere condotta nella lingua materna del bambino. Oggi, mentre altrove, dal Canada al Perù, dalla Scozia all'Euskadi, dal Galles alla Catalogna sorgono istituzioni culturali, si rafforza il senso di appartenenza, anche attraverso educative bilingui. Noi arriviamo in ritardo a comprendere che lo scopo verso cui dobbiamo puntare è il plurilinguismo. E' la capacità di confrontarci, di apprendere, di creare, a partire da noi, dal nostro mondo, dal nostro villaggio di parlanti, per capirci dentro il grande villaggio che è l'Europa, che è il mondo. Nonostante, quindi, le contraddizioni, le difficoltà, i dubbi che tutti abbiamo, noi questa legge dobbiamo approvarla, altrimenti l'approverà prima di noi il Parlamento che sta per varare una legge nazionale in cui si afferma l'ampia facoltà per le regioni di utilizzare le lingue locali e contribuirà in termini finanziari al conseguimento di questo obiettivo. Quella legge sarà più avanzata della nostra, ma forse ci sentiremo rassicurati dal fatto che ancora una volta è arrivata dall'esterno l'autorizzazione a fare qualcosa.
Il considerare la scuola come la sede più idonea per riconquistare consapevolezza come popolo è importante perché la scuola consente di cominciare a sperimentare un percorso di insegnamento diverso, un percorso di programmi su base regionale che siano adattati alla nostra realtà, ai nostri bisogni culturali, al nostro vissuto, all'integrazione tra sapere e vita, tra scuola e società, tra conoscenza e ambiente. Questo è il percorso che dobbiamo compiere. Fondamentale è il problema della sperimentazione; per arrivare ad integrare i programmi ministeriali secondo le nostre specifiche esigenze. Integrare i programmi è un compito che vogliamo compere noi con le nostre scuole, con i nostri insegnanti, con la capacità che essi hanno, con i fermenti che sono sorti anche all'interno della scuola in questi anni. Vogliamo adattarli noi i programmi, vogliamo capire noi che cosa è più giusto e più corretto per i ragazzi del nostro territorio. L'altra questione è quella delle disposizioni finanziarie. Le risorse sono limitate, la proposta di un progetto culturale complesso e compiuto come quello che la legge propone è un'impresa difficile; avrebbe bisogno di ben più solidi investimenti finanziari, non si tratta di finanziare un'associazione culturale, musicale o teatrale.
Qualche collega è sembrato spaventato per le cifre, non sapendo che, per esempio, la Catalogna investe miliardi, non spende, investe in prospettiva, per pagare centinaia di persone che lavorano intorno alla unità della lingua. Così avviene nei Paesi Baschi. L'Irlanda spende cifre enormi per la diffusione della lingua nazionale. Sappiamo che per fare questa pianificazione sono necessarie strutture, mezzi, risorse. Certo siamo consapevoli delle ristrettezze dei nostri bilanci, siamo anche consapevoli che la legge va prima attivata, perciò non ci siamo posti l'obiettivo di destinare oggi grandi cifre sapendo che bisognerà attivare prima tutti i meccanismi. E' bene che la Regione cominci a tracciare un programma di lavoro, ad aprire una prospettiva di politica culturale diversa.
Questo per rispondere all'impegno assunto nell'avvio di questa legislatura e riaffermato nelle ultime dichiarazioni programmatiche del Presidente. Alla stesura di questa legge hanno lavorato e sostanzialmente contribuito anche Gruppi che oggi non sono in maggioranza, ad essi bisogna dare atto di un grande impegno di lavoro, di ricerca, di sintesi e anche di rinunzia a quelle che erano alcune delle proprie convinzioni. Tutto questo perché abbiamo intuito fermenti e urgenze che si muovono nella società sarda, ai quali abbiamo il dovere di dare corpo e gambe e risposta compiuta in tempi rapidi.
Avviandomi alla conclusione vorrei rimarcare l'importanza dell'Osservatorio.
L'Osservatorio, a cui non si risparmiano critiche, è uno degli strumenti culturali più moderni attivati in Italia e in alcune regioni europee (basterebbero i riferimenti ala regione Lombardia, l'Emilia Romagna o l'Osservatorio di Grenoble). Occorre capirne la funzione e lo spirito con cui lo si è pensato, come centro di studio e di attività operativa, come organismo snello e ricambiabile perché regolato da convenzioni biennali. Ciò non toglie nulla alle capacità, alle esperienze che sono dentro la struttura regionale, alle funzioni che dentro la struttura regionale si esercitano egregiamente, ma certo si tratta di sperimentare una cosa nuova, inedita. E' una scommessa per un'impresa fuori dalle logiche tradizionali dei progetti e delle ricerche; si tratta di scegliere persone preparate, competenti, capaci, animate da convinzioni creative e attuative che siano fuori dal gioco clientelare delle vecchie scelte partitiche.
Il resto è un discorso restrittivo. Per me l'Osservatorio è un organismo dinamico esposto a ritmi di mobilità, al ricambio dei soggetti e degli operatori man mano che si realizzano gli obiettivi, con convenzioni a termine finalizzate a precise competenze e a specifici progetti.
Il mio discorso trova la conclusione più pertinente in un discorso molto significativo di Dessanay che partecipando ad un convegno della Società linguistica italiana fece queste considerazioni: "In tempi di pluralismo mi pare fin troppo scontato ripetere che non può esistere democrazia laddove non si rispettino le minoranze, anche quando siano eretiche, e laddove il giudizio sulle minoranze venga riproposto in termini quantitativi".
Questa mia osservazione ha due facce: una è rivolta verso l'Italia con la sua tradizione di accentramento e di autoritarismo politico e culturale, l'altra è rivolta verso quella parte della Sardegna che non riesce a rinunciare ai ristretti e poveri vantaggi della dipendenza. La ripresa e la riaffermazione della nostra diversità di sardi muove verso un internazionalismo di tipo nuovo, libero da vincoli autoritari, fondato sugli apporti originali dei popoli che decidono di essere se stessi, anche all'interno di uno stato plurinazionale e plurilingue e di partecipare contemporaneamente alla vita politica e culturale del mondo.
Il Gruppo socialista non verrà meno oggi ad un impegno culturale consolidato, ad una tradizione di garanzia dei diritti inalienabili delle minoranze etniche e linguistiche, del diritto all'esistenza e quindi del diritto alla possibilità di esprimersi pienamente. In questo senso ha partecipato, ha lavorato per presentare una proposta, per cercare di trovare le opportune intese perché si arrivasse a un testo unificato, lavorerà in Consiglio ancora per far sì che la legge venga approvata.
PRESIDENTE. E' iscritto a parlare l'onorevole Manca. Ne ha facoltà.
MANCA (P.D.S.). Onorevole Presidente, t'io cherrere faeddare in limba e mi t'iat fìnzas aggradare, ma no' a solu, ka non est sinnale de allirghìa.
Sa gana, como, ka ai cust'ora 'e sero seo disganau, e su tempus, ka penzajo de arresonare de custa leze sa chida k'intrat e no' oe, comente mi toccada a faere, e sos imbentos de su Regulamentu e sas pinnas brulladoras de Franziscu Cocco casteddaju e de Crabielle Satta cabesusesu, ki funt malas e das timo, mi cumbinchent a chistionare in continentale, no' italianu, ka su continentale est sa limba 'e sos meres, comente mi narajant in domo a pitzocheddu 'e iscola, cando mi crejo de esse' mere jeo puru, ka penzajo ka a esse' mere cheriat narrere a currere a cartzones a conca 'e inugu, a pes iscurtzos e chena buttinos in sas pischinas de jerru e in sas coras de abba fritta, in su pruène callente de s'istiu e in sa paza arrecracada de sos zuos e de sos triulaos de sas arzolas de sos oros de idda mia!
Onorevole Presidente, mi piacerebbe intervenire direttamente in lingua sarda, ma non in solitudine, perché si perderebbe il senso della normalità.
La voglia di farlo, peraltro, in questo momento e a quest'ora del pomeriggio, non è fortissima; l'anticipazione, poi, dell'intervento (pensavo infatti di poter discutere di questa legge nel corso della prossima settimana e non oggi, come invece sono costretto a fare) ed i cavilli del Regolamento consiliare e le penne satiriche del cagliaritano Francesco Cocco e del sassarese Gabriele Satta, di cui ho timore perché sono irriverenti, mi spingono a parlare in continentale, non dico in italiano ma proprio in continentale: la lingua del padroni, come ripetevano a casa mia quand'ero ragazzino delle elementari e credevo di essere anch'io un padrone, perché pensavo che esser padrone significasse poter correre a braghe corte, senza scarpe e a piedi nudi nelle pozzanghere invernali e nei canali di acqua gelida, nella polvere calda dell'estate e sulla paglia pressata dai buoi e dalle tregge di pietra delle aie sparse ai bordi del mio paese!
Onorevole Presidente, come altri colleghi non sedevo sui banchi di questo Consiglio quando, nell'ultima tornata del lavori della precedente Assemblea regionale, venne animosamente discussa ed improvvidamente respinta la proposta di legge sulla lingua e la cultura della Sardegna.
Vissi da esterno, dunque, assieme a tanti altri semplici cittadini, quella sconfitta inattesa e, come allora, ancora oggi continuo a ritenere che non solo la Democrazia Cristiana ma, soprattutto, la sinistra sarda, in quella fase al governo della Regione con tutte le sue componenti (comunista, socialista, laica e sardista) mancò della lungimiranza e del coraggio necessario per onorare positivamente un appuntamento importante per tutti i sardi e da lungo tempo atteso.
Prevalse, in quell'occasione, nell'imminenza della campagna elettorale, un freddo calcolo di bottega.
Molti, e non parlo soltanto degli altri, accamparono presunti diritti di primogenitura o dichiararono dubbie ed improbabili fedeltà e, nei diversi schieramenti politici venne meno la disponibilità a rinunciare tutti a qualcosa sul piano delle affermazioni di principio per cominciare da subito e tutti, operatori della politica, della cultura e del sociale, a costruire un modo nuovo di rapportarsi collettivamente alle proprie radici e all'albero che ancora ne garantisce la sopravvivenza nel contesto di una cultura e di una lingua che alimentano quotidianamente il nostro moderno ed articolato modo di sapere e di volere essere terra e popolo della Sardegna.
A fronte dell'avvenimento richiamato, leggo oggi positivamente e con spirito laico il significato del voto favorevolmente espresso, in forma unanime, dalla competente Commissione consiliare che, nell'esame della nuova proposta di legge sulla tutela e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna, ha saputo privilegiare la centralità della mediazione possibile rispetto all'esasperazione delle diverse posizioni di parte e all'enfatizzazione di astratti principi generali.
Allo sforzo collettivo hanno contribuito fattivamente i rappresentanti del Partito Democratico della Sinistra, convinti da una pluralità di valide ragioni culturali e politiche, non ultima la necessità e l'urgenza di arginare, con tutte le armi della democrazia ed in tutte le diverse aree del Paese, l'imbarbarimento dei rapporti sociali e il pericolo di divisione territoriale che sembrano ormai camminare e correre di pari passo con l'avanzare del consenso per la Lega e per Bossi.
E non sembri fuori luogo, nell'ambito del ragionamento che mi accingo a fare sulla necessità di salvaguardare i valori e le diversità delle minoranze, il richiamo preoccupato e partecipe della tragedia che coinvolge da tempo i popoli delle diverse regioni che si combattono in armi in quella parte della penisola balcanica a noi più vicina che è stata, fino a ieri, la Jugoslavia, una terra che paga oggi la violenza con cui si pretese di risolvere nel passato il problema delle legittime aspirazioni di etnie e popoli diversi.
Al di là di queste riflessioni, che spingono, tutte e con forza, in direzione di una chiara esplicitazione del bisogno di uno strumento completo e organico per la massima tutela e la compiuta valorizzazione della nostra diversità regionale, va evidenziato che, per molti componenti di questo Consiglio, la scelta di campo nasce da percorsi formativi e da opzioni politico-culturali che hanno coltivato in forma autonoma i valori del sardismo anche fuori dal Partito Sardo d'Azione cui, peraltro, va riconosciuto il merito storico di una forte contaminazione ideologica positiva sulle altre formazioni politiche dell'Isola.
Onorevole Presidente, ho ascoltato ieri con attenzione, fra gli altri, gli interventi di alcuni colleghi che, dico francamente, condivido solo in parte e non certamente nella proposta conclusiva, tesa a sostenere che può andare anche bene il contenuto generale del provvedimento, purché depurato della previsione finanziaria di spesa, ritenuta scandalosa in questo non facile periodo di vacche magre.
A me pare, quella esposta, una posizione fortemente datata, basata su una falsa concezione dei beni culturali e, quindi, del problema della lingua. Una concezione trascinata per decenni, che ci ha portato a trascurare un patrimonio di valore inestimabile, anche in termini puramente economici: ci siamo, infatti, limitati ad attribuire ai beni culturali dei semplici valori anziché trasformarli in autentiche risorse, in elementi qualificanti, quindi, di una complessiva politica di sviluppo.
In realtà, fino ad oggi, non abbiamo fatto altro che riproporre a noi stessi il dilemma "più cultura o più investimenti produttivi" ed abbiamo sempre fatto una scelta che ci ha spinto a giudicare sterilmente improduttivo ogni vero e reale investimento per la cultura.
La proposta che la Commissione ha portato in Aula e la discussione che stiamo svolgendo, fra l'altro in un momento di grave crisi economica e di accentuata caduta produttiva, hanno però, e spero davvero di non sbagliarmi, il significato preciso di una svolta, tesa ad evidenziare la presenza della reale consapevolezza che la cultura non è estranea ai processi sociali ed economici che regolano la vita della nostra Regione e che lo sviluppo culturale progredisce anche in rapporto allo sviluppo delle condizioni materiali ed alla realizzazione di investimenti direttamente produttivi.
Uno dei principali obiettivi di questa legge, difficile quanto ambizioso, è dunque quello di avviare un processo che porti a collocare la cultura in generale e quella sarda in particolare in un ruolo di centralità nel sistema sociale ed economico della nostra Regione, che è chiamata a ridefinire in termini e modi corretti concetti quali progresso, modernità e sviluppo.
Quello che stiamo tentando di fare è solo un primo passo, che ci aiuterà anche a capire che principalmente qui, in Sardegna e in noi, nei sardi quindi, è contenuta la forza che potrà garantirci un risultato all'altezza del progetto, e che la positività dell'uso delle leggi di settore ai fini della valorizzazione del nostro patrimonio culturale sarà direttamente proporzionale alla coscienza di popolo che collettivamente riusciremo ad esprimere.
Sappiamo che il Palazzo romano è in grave ritardo per l'approvazione di una legge quadro nazionale nella quale comprendere a pieno titolo il disegno regionalista avviato dalla proposta in discussione; sappiamo però, anche, che la gente ha espresso ed esprime l'esigenza di una risposta delle istituzioni di vario livello, adeguata alla domanda di tutela culturale globale, che si configura ormai tra i bisogni primari della gente.
Passando all'esame di merito della proposta di legge, si può affermare che attorno a quattro punti, soprattutto, si è polarizzata la discussione e si stanno radicalizzando opinioni contrapposte.
Un primo dubbio può riguardare il livello di imposizione dell'uso della lingua, soprattutto in riferimento all'articolo 23 della proposta in discussione, quando afferma che "nella scuola materna dovrà essere comunemente usata, accanto a quella italiana, la lingua sarda, prevalentemente nella parlata locale" e, ancora, che "i programmi generali di insegnamento scolastico sono gradualmente svolti in lingua sarda, nelle sue varianti locali".
Ora, se è vero che la forma, la qualità e la diffusione dell'espressione linguistica della società civile e delle istituzioni assumono la connotazione di valori fondamentali, e in rapporto ad essi, soprattutto, una cultura ed una storia possono vivere o sono condannate a morire, è altrettanto vero che, per quanto riguarda l'aspetto dei rapporti Stato-Regione, il quadro generale di riferimento della proposta di legge è estremamente povero, caratterizzato com'è solo dal richiamo dei principi costituzionali e di quelli statutari, gli uni e gli altri privi, peraltro, di adeguate norme attuative.
E' il caso, dunque, di richiamare i contenuti della risoluzione del Consiglio d'Europa che ha definito il diritto alla tutela delle lingue minoritarie. Recita il preambolo di tale Risoluzione: "Considerato che certe lingue regionali o minoritarie rischiano di sparire e che questa sparizione indebolirebbe la tradizione e la ricchezza culturale dell'Europa, e considerato perciò legittimo e necessario prendere delle misure speciali per salvarle e svilupparle; considerato che il diritto delle popolazioni ad esprimersi nelle loro lingue regionali o minoritarie nell'ambito della loro vita privata e sociale costituisce un diritto imprescrittibile; consapevoli del fatto che la difesa ed il rafforzamento delle lingue regionali o minoritarie nei vari paesi e nelle varie regioni d'Europa, lungi dal costituire un ostacolo alle lingue nazionali, rappresentano un contributo importante all'edificazione di un'Europa basata sui principi di democrazia e di diversità culturale, nell'ambito della sovranità nazionale e dell'integrità territoriale; procede all'approvazione della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie".
Alla luce, dunque, di tali indicazioni, il citato articolo 23 non appare sconvolgente, né può essere considerato alla stregua di una velleitaria fuga in avanti: realisticamente può essere, invece, definito un semplice tentativo di metterci al passo con obiettivi già definiti a livello europeo e validi, sul piano degli impegni politici, anche per il nostro contesto nazionale.
Non è, dunque, la scelta del livello impositivo una surrettizia socializzazione dell'estremismo linguistico di un sardismo avanguardista, ma serena presa d'atto dei gravi errori del passato e coscienza dell'urgenza di ricuperare il ritardo colpevolmente accumulato.
E cito ancora la risoluzione europea che, tra gli obiettivi, indica: "la promozione dell'uso orale e scritto delle lingue regionali o minoritarie nella vita pubblica, sociale ed economica; l'insegnamento e lo studio delle lingue regionali o minoritarie a tutti i livelli; l'offerta di agevolazioni affinché le persone che non parlano queste lingue, residenti nel territorio in cui le stesse vengono utilizzate e che lo desiderino, possano imparare tali lingue; la promozione di studi e ricerche sulle lingue minoritarie in un ambito universitario o equivalente".
Nel campo specifico dell'insegnamento è anche espressamente previsto: "che l'istruzione prescolastica ed elementare e quella secondaria, ivi compresa quella tecnica e professionale, e l'insegnamento superiore ed universitario, vengano impartiti nelle lingue regionali o minoritarie".
Anche sulla base di questi riferimenti, dunque, va rifiutata una lettura dei processi di definizione, tutela e valorizzazione delle identità minoritarie che evochi tendenze disgregatrici e pericoli di dissolvimento delle nazionalità, per favorire, invece, l'assunzione di una forte coscienza del bisogno di dare legittimità piena ad un pluralismo culturale e linguistico che sappia essere rifiuto dell'intolleranza e del razzismo e momento di costruzione di rapporti non occasionali di confronto e di convivenza civile e democratica.
Una seconda riflessione può essere fatta sul quadro dei soggetti individuati dall'articolo 17 quali operatori del settore culturale. Accanto ai soggetti pubblici vengono richiamati anche quelli privati, comunque organizzati e senza scopo di lucro, e, per la prima volta nello specifico del settore culturale, anche soggetti di impresa con scopo di lucro, con l'obiettivo di definire confini precisi e fare chiarezza in un campo che, se razionalizzato e correttamente programmato, può garantire risposte positive in termini di investimento e di occupazione, sfoltendo una selva di furbi, di opportunisti e di mediocri improvvisatori che con la cultura hanno certamente poco a che fare.
La stessa Corte dei conti riecheggia il senso della proposta quando scrive, nella relazione sul rendiconto generale della Regione per l'esercizio finanziario 1992, nella parte dedicata all'Assessorato della pubblica istruzione: "La polverizzazione degli interventi finanziari di spesa impegna risorse che, se quantificate e coordinate opportunamente raggiungono entità cospicue. Le stesse, se impegnate in interventi strutturali, potrebbero incidere in maniera più rilevante sul sistema economico dell'isola, anche in tale comparto, con positivi effetti sul settore occupativo".
Dal punto di vista tecnico e operativo, l'aspetto e l'elemento più controverso della proposta in discussione è, senza dubbio, rappresentato dall'Osservatorio.
Non è una soluzione scaturita da una convinzione generale piena e matura, rimane in proposito un consistente margine di dubbio, è vero, ma sarebbe sbagliato definirla soluzione improvvisata, perché rappresenta il risultato di un lungo confronto che, nel suo svolgersi, si è soffermato a valutare e soppesare anche altre possibili ipotesi organizzative, prima fra tutte quella di ricomprendere le funzioni dell'Osservatorio negli uffici dell'Assessorato della pubblica istruzione, all'interno, quindi, dell'esistente struttura regionale.
Si è però unanimemente convenuto, alla fine dell'analisi, che quello disegnato dovrà essere un processo di forte rottura e discontinuità col passato, di innovazione sostanziale oltre che formale, sul piano dei contenuti e del metodo. Per tale ragione l'ipotesi di affidamento ad una qualsiasi struttura esistente è caduta, a prescindere da ogni tipo di valutazione e di giudizio sul quadro del personale disponibile.
La realtà, purtroppo, come è stato ripetuto in diversi interventi, indica chiaramente che il non molto di significativo che esiste nel campo della cultura e della lingua sarda, come individuato dalla Commissione, è presente a prescindere dal quadro delle strutture regionali e per l'impegno, la serietà e la determinazione di soggetti della società civile, della scuola, dell'associazionismo culturale, degli enti locali e dei privati più diversi.
Questo mondo articolato e vario, anima vera di quella radicata resistenza culturale che ha difeso e alimentato il quadro complessivo dell'identità della Sardegna, che poteva e doveva, anche in situazione di carenza normativa, essere sostenuto dall'Assessorato regionale competente, e non lo è stato, diventa oggi la base di reclutamento di una squadra di operatori professionali adeguatamente selezionati e fortemente motivati.
Noi crediamo che sia possibile migliorare ulteriormente il sistema proposto, estendendo il campo della selezione fino a comprendere figure professionali già presenti negli organici regionali. Esprimiamo, comunque, un giudizio cautamente positivo sul quadro di insieme, che tende a rifuggire, anche per la tipologia individuata per il rapporto di lavoro degli operatori, dal pericolo della creazione di un precariato del tipo legge 285 o articolo 10 bis della legge regionale 28/84. Il sistema appare ancora troppo complesso, ma il dibattito in Aula potrà migliorarlo ulteriormente. L'esperienza concreta insegnerà poi come adattare al meglio lo strumento per il compiuto raggiungimento degli obiettivi.
Non voglio entrare in polemica col compagno Andrea Pubusa, cui riconosco, e non da oggi, serietà e competenza, ed il coraggio di dire sempre e comunque quello che pensa, in tutte le sedi.
Voglio però ricordare, proprio a lui che è stato uno dei proponenti, che in questa stessa tornata consiliare siamo stati chiamati ad approvare, con una maggioranza "bulgara", come lo stesso compagno ama definire il risultato di certe votazioni, l'incardinamento di 165 divulgatori agricoli in appoggio all'Ersat, ad un ente cioè di oltre 1500 dipendenti, noto per la sua inefficienza e inutilità, e per il quale è stato già concordato, almeno sul piano dell'accordo politico, lo scioglimento. Voglio dire al compagno Pubusa che proprio una valutazione ragionata su tale decisione e sulle sue conseguenze ha convinto i commissari del suo partito, contrari in origine alla tesi dell'Osservatorio, ad accettare tale soluzione perché giudicata più funzionale e meno prevaricante di una decisione entrista nei confronti dell'Assessorato della pubblica istruzione.
Da ultimo, va richiamata l'opinione di chi ritiene pleonastica l'indicazione del quadro dei sistemi e dei servizi e, quindi, del cataloghi regionali previsto dall'articolo 4 della proposta di legge, sovrabbondante la previsione delle sezioni dell'Osservatorio ed insufficiente la dichiarazione di volontà tesa ad indicare il percorso delle leggi di settore. L'esigenza di semplificazione, anche in termini funzionali, è assolutamente reale e il residuo margine operativo proprio del Consiglio consente ancora un ulteriore intervento riduttivo, sia sui sistemi che sulle sezioni dell'Osservatorio.
Le ragioni, invece, che hanno spinto verso la doppia configurazione di legge quadro e di leggi di settore, mi paiono pienamente valide e trovano giustificazione nella tangibile carenza normativa e nella semplice sottolineatura della estrema precarietà delle situazioni in essere.
E' infatti davanti agli occhi di tutti lo stato dei servizi culturali di competenza regionale, al centro e nei territori: abbiamo davanti non il deserto ma una pluralità caotica di riferimenti, sia pubblici che privati, che non rispondono a nessun disegno, che sono incapaci di dialogare fra loro o con un soggetto di programmazione o anche di semplice coordinamento operativo.
Di questo, dunque, abbiamo bisogno: di una legge quadro che ci consenta di mettere in piedi un disegno di scala e valenza regionale e, a seguire, di leggi di settore che riconducano alla ricerca della qualità e ricompongano gli squilibri territoriali, rifuggendo dalla polverizzazione e facendo dell'economicità e della organicità la base razionale del corretto uso degli uomini e delle risorse.
Credere e scommettere su una organizzazione di tale natura, per sistemi regionali fortemente raccordati ai territori, aiuta a pensare e a trovare come sconfiggere l'esclusivismo centralista che ha sempre alimentato la tendenza al disinteresse per i beni culturali sempre relegati tra le vecchie cose da museo e non utilizzati e vissuti, invece, come noi vogliamo, perché servano veramente al progetto di un popolo, quello sardo, e al suo sviluppo.
PRESIDENTE. E' iscritto a parlare, ed è l'ultimo oratore, l'onorevole Ortu. Ne ha facoltà.
ORTU (P.S.d'Az.). Signor Presidente, onorevoli consiglieri, non pensavo davvero di dover iniziare questo mio intervento ricordando e rivendicando al sardo la dignità di lingua. Pensavo fossero ormai un tema e un argomento scontati; e i dispiace che l'unico nostro collega che abbia sostenuto e portato avanti una tesi di questo genere sia in questo momento assente. Dopo tanti studi, dopo che il concetto di lingua sarda è stato universalmente accettato, ancora oggi nel Consiglio regionale della Sardegna, nella massima Assise del popolo sardo si parla di questo. A che cosa sono valsi gli studi del Wagner, di Urciolo, di Blasco Ferrer, di tanti studiosi sardi dal Canu a tanti altri, ad Antonio Sanna, a Leonardo Sole? Ma io vorrei ricordare che lo stesso padre della lingua italiana, Dante, uno certamente dei maggiori detrattori dei sardi e delle donne sarde in modo particolare ritenute nel De vulgari eloquentia donne che avevano così scarso il senso del pudore...
(Interruzioni)
Dante si sofferma a parlare del latino parlato dai sardi e dice che parlavano in latino così come le scimmie parlavano il volgare italiano. Bene, questo lo diceva Dante ma non ricordando che prima del volgare italiano nasceva il volgare sardo. Nel 1054 le Carte cagliaritane già si esprimono in sardo, ed in un atto di donazione del Giudice di Cagliari alla chiesa cagliaritana è usato ancora il sardo, del volgare italiano ancora non si conosceva nulla. Il sardo dialetto della lingua italiana? Ma chi è nato prima? Si ignora anche che qualsiasi trattato, qualsiasi manuale che scientificamente esponga come sono nate le lingue neolatine attribuisce al sardo la dignità di lingua neolatina. Le lingue neolatine si dividono in tre gruppi distinti: l'occidentale, l'orientale e il meridionale e guarda caso la lingua italiana appartiene al gruppo orientale con il rumeno, il sardo appartiene invece a quello meridionale, al latino cioè che si diffuse, e al volgare che poi ne derivò, nell'Africa romana e in Sardegna. Le relazioni tra Sardegna ed Africa, specialmente per quanto riguarda la chiesa, erano infatti intensissime; l'Esarcato d'Africa fu la causa del nascere e dello svilupparsi di questa lingua neolatina. Ma io vorrei ricordare che altri linguisti, come Tullio De Mauro che certamente non è l'ultimo, hanno scientificamente trattato l'argomento; e oggi in Giappone, un giapponese sta predisponendo un vocabolario sardo, italiano, giapponese. Ma è possibile che agli antipodi della Sardegna si parli di lingua sarda e in quest'Aula invece la si disconosca? La lingua sarda, lo sappiamo, è insegnata in molte università del mondo: a Grenoble, in America, in Germania e altrove. Nel momento in cui il mondo diviene tanto piccolo che si parla di villaggio globale, l'umanità sente il bisogno di ripensare e di ritornare alle micro culture, alle culture locali da cui partire per comprendere appieno il mondo di oggi. E lascio qui, per poi riprendere magari l'argomento quando andremo a discutere l'articolato. Gli attributi che maggiormente concorrono alla specificità dell'uomo e dell'insieme della sua cultura sono l'ambiente, che egli stesso crea, ed il suo linguaggio inteso come strumento mediante il quale egli rende significativo il suo ambiente. Non è infatti la lingua qualcosa di esteriore e di incidentale. Non è un giocattolo componibile che ci viene dato pezzo dopo pezzo, durante il processo di crescita dall'infanzia all'età matura. Ma è una parte intima ed essenziale, profonda di noi stessi, del nostro essere, di ciascuno di noi. La lingua per l'uomo non è un prodotto bello e pronto di cui si può disporre, ma il risultato di un processo di crescita e di sviluppo che coinvolge, in una interazione ininterrotta, il bambino e l'uomo adulto con le persone e gli oggetti intorno a lui. Nell'apprendere la nostra lingua noi non ci limitiamo a cogliere passivamente gli elementi e la struttura della lingua madre, così come ci vengono presentati nei discorsi di coloro che ci circondano. Nell'apprendimento della lingua nessuno è partecipe passivo; ciascuno di noi partecipa attivamente al processo per mezzo del quale ci sforziamo di rendere il mondo significativo a noi stessi. I due processi di apprendimento della lingua e di interpretazione del mondo sono intimamente legati l'uno all'altro perché la lingua è qualcosa di più delle parole e dei suoni; è fatta anche di significati, soprattutto di significati. Con la lingua si elabora una cultura, cosicché ad ogni lingua corrisponde una particolare percezione del mondo perché è il nostro linguaggio che costruisce per noi il nostro pensiero. Seguendo rigorosamente la struttura di ogni lingua, constatiamo strutture di pensiero differenti. Ogni lingua, pertanto, ha la sua concezione del mondo, ne conseguono culture e civiltà differenti che vanno a costruire mondi ben distinti. Si è ormai preso coscienza del fatto che ogni lingua mette in evidenza aspetti differenti della stessa realtà; la nostra visione del mondo ci è data dalla nostra lingua. Le differenze tra culture si aggiungono alle difficoltà che le stesse lingue oppongono alla traduzione fedele e totale. L'antropologia culturale ci porta a pensare che non è sempre lo stesso mondo che viene espresso da strutture linguistiche differenti, perciò il buon traduttore deve essere innanzi tutto un buon etnografo. Una lingua analitica e una lingua sintetica corrispondono a due modi etnici di ragionale. La stessa fonetica, prima ancora delle regole che governano la costruzione di un periodo del discorso, i suoni, il ritmo, la scansione, la melodia, ci informano più direttamente del subcosciente dei popoli. Notiamo a questo proposito le differenze tra le varie lingue: il castigliano, rude, sonoro, metallico, rende l'animo di questo popolo energico, fiero ed appassionato; il tedesco traduce l'emotività e la forza di una nazione che è come magnetizzata dalla natura; l'inglese è risoluto, riservato, sussiegoso. Quando un'etnia cambia lingua in seguito ad un processo di assimilazione, essa adatta la lingua ricevuta alle sue strutture psicolinguistiche e se ne rifà un abito nuovo, ricucito sulle sue misure. Il passaggio stesso dalla lingua dei nostri protosardi e dei nuragici alla lingua latina, ecco il nostro volgare, ecco una lingua ricevuta che viene invece trasformata e riadattata alla psicologia di questo popolo. La lingua antica ricompare sotto forma di intonazioni, di suoni, o di schemi motori della nuova lingua adattando la lingua ricevuta dalle loro tradizionali strutture, poi la lingua a sua volta si prende la rivincita rimodellando parzialmente i popoli. Non è vero che il popolo che cambia lingua resti lo stesso, muta qualcosa. Ad ogni lingua corrisponde una cultura, dicevo, e la qualità dell'una si riflette sull'altra. La lingua resta il più intimo tra i fattori della cultura, il più presente all'uomo, quello che in qualche modo riassume tutti gli altri. In Commissione ho sostenuto che, tanto nel titolo che nel contesto della legge di cui discutiamo, il termine lingua dovesse sempre precedere il termine cultura, proprio alla luce di queste considerazioni. Si dà anche il caso di culture le cui radici linguistiche si sono offuscate, isterilite, spente, le così dette etnie di elezione; in Scozia, in Irlanda, in Bretagna, essendosi imposta ed affermata un'altra egemonia politica, pur con il regresso della lingua, la cultura di quei Paesi ha potuto conservare il suo carattere originario non solo nelle regioni dove la lingua persiste, ma anche nelle regioni assimilate. In Francia, nonostante la forza di assimilazione della lingua e della cultura francese, Baschi, Bretoni, Catalani, Occitani e Corsi si negano ostinatamente all'assimilazione, eppure sono trascorsi secoli dal giorno in cui il re di Francia impose il latino del'Ile de France a tutto il suo territorio distruggendo la bella lingua dei trovatori, alla stessa maniera con la quale la Repubblica francese avrebbe imposto lo stesso latino de l'Ile de France agli algerini riuscendo a bandire l'arabo classico dall'Algeria, anche se non i dialetti arabi, magrebini e berberi.
E, si desse pure il caso che la lingua tradizionalmente parlata in un territorio definito fosse scomparsa in certe famiglie e si fosse addirittura estinta in certe località, noi non esiteremmo a considerare i suoi antichi parlanti come facenti ancora parte dell'etnia. La lingua comporta un tipo umano con una psicologia e una cultura specifiche; non è possibile che questo tipo di uomo particolare scompaia di colpo quando muore la lingua, anche se la perdita della stessa lo altera gravemente, ma deve ancora passare un lungo periodo prima che sul piano dei costumi, delle tradizioni, del carattere si dissolva il genio etnico di un popolo, di una comunità linguistica; comunità linguistica che non è una semplice collettività umana tra le tante; una comunità linguistica è probabilmente la più importante di tutte le comunità possibili. Si può pensare di conseguire condizioni di vita sensibilmente identiche per tutti gli uomini e anche alla scomparsa delle classi, eppure l'umanità certamente non procede né si sta avvicinando all'unità linguistica. La varietà linguistica è fonte di ricchezza innanzitutto spirituale e artistica; difendendola non si difendono soltanto i diritti dell'individuo, si difende anche un patrimonio culturale che giova anche all'Europa intera, che giova a tutta l'umanità. La varietà linguistica e quindi dalla cultura agisce come un demoltiplicatore d'arte; un etnia, una lingua che si estingue è una fascia del prisma delle arti che si cancella. L'alienazione culturale di un popolo si traduce inizialmente e principalmente nell'alterazione e nel deperimento della lingua; alla alienazione culturale segue ineluttabilmente l'alienazione politica e quindi quella economica. Lo dovremmo ricordare sempre, specie allorché, come spesso avviene in questo Consiglio, le nostre attenzioni e preoccupazioni si soffermano sulle gravi e ricorrenti crisi economiche dell'Isola. Ogni progresso sociale e culturale per essere autentico può avvenire soltanto per il tramite di quella lingua attorno alla quale si è formata storicamente una comunità; una comunità privata della sua lingua si ammala sino a morire come tale, e non è un caso se le zone tradizionalmente abitate da minoranze linguistiche non tutelate sono zone di sottosviluppo economico, sociale e culturale. Alla lingua depressa o repressa corrispondono generalmente una economia depressa, una società depressa, una cultura depressa. Il fenomeno non è sempre organizzato e sistematico, come invece è stato in alcune colonie, ma presenta ugualmente un alto grado di generalità. Nel caso più frequente le regioni con le lingue tagliate spiccano sul resto dello Stato per il loro minore sviluppo. In Francia è abbastanza edificante l'esempio della Bretagna, dell'Occitania, del Paese Basco, della Corsica. Gli inglesi stanno trasformando la regione Gaelica della Scozia in tante riserve di caccia! Forse qualcuno ha pensato per la Sardegna un tale futuro? Non migliore fortuna pare che lo Stato italiano voglia riservare alla Sardegna. Le Regioni che si sono assicurate la tutela e valorizzazione delle proprie lingue e culture sono anche quelle che esprimono i più alti indici di prodotto interno lordo e di reddito procapite, in Italia la Valle d'Aosta, l'Alto Adige; in Spagna, la Catalogna, l'Euskadi.
Le minoranze sono anche meno capaci di difendersi se l'alienazione sociale si viene a innestare su quella economica e questa su quella culturale. Le classi privilegiate per conto loro, tradendo i loro popoli, presentano una minima resistenza all'assimilazione, per conseguire comunque un avanzamento sociale e esercitare la loro egemonia per mandato sui più deboli socialmente - borghesia compradora - nella scala sociale occupano i primi posti e riscuotono rispetto, privilegi e credibilità. Chi si attarda e vive nel contesto della cultura subalterna è collocato nei gradini più bassi della piramide sociale; non merita rispetto e credibilità. Chissà perché i pastori che hanno manifestato il loro disagio sociale davanti al palazzo della mediazione sono stati tanto duramente trattati dalla informazione, dalla stampa, dalla televisione in Sardegna ed ancora nel palazzo dove si amministra la giustizia, certamente in misura difforme e più severa nei confronti di altri lavoratori che ugualmente rivendicavano giustamente, con altrettanta forza e decisione, il loro diritto al lavoro e alla vita. La Chiesa, una volta favorevole al mantenimento dei caratteri etnolinguistici, ha rinunciato da tempo alla loro difesa; i preti, che hanno salvato il Canada francese e la lingua francese in Valle d'Aosta e per secoli nella nostra isola la lingua sarda, sembrano sempre più sottomessi al potere temporale, non in armonia con il gregge a loro affidato. Ciò è particolarmente evidente nell'alto clero che abbiamo visto sconfessare e a volte punire i parroci refrattari della Catalogna, dell'Euskadi e qualche anno fa anche in Sardegna. La resistenza della lingua sarda per lungo tempo si appoggia alla Chiesa e alla letteratura religiosa. Vengono pubblicati in sardo almeno venti catechismi e un buon numero di opere di speculazione teologica. Già nel 1840 usciva presso la stamperia reale di Cagliari la celebre "Ortografia sarda nazionale" ossia "grammatica de sa limba logudoresa cumparada cun s'italianu" de su canonicu Giuanni Spanu, che ieri ricordava così ben Francesco Cocco. Già nella prima metà del XV secolo un arcivescovo di Sassari, Antonio Canu, scriveva un suo poemetto in sardo e circa un secolo dopo il canonico di Bosa Girolamo Araolla, sassarese, già capo giurato, diremmo oggi sindaco della città, con la sua opera poetica volle così come ebbe a scrivere "sempre abbesi disigiu de magnificare e arricchire sa limba nostra sarda" innalzare pertanto a dignità di lingua il logudorese, sostenendo e dimostrando con i suoi scritti come nulla essa potesse invidiare alle altre lingue, se coltivato dagli scrittori isolani. Nel XVIII secolo, ancora un uomo di chiesa, il gesuita ozierese Matteo Madau, scrisse "Il ripulimento della lingua sarda" oltre numerose poesie e dopo di lui ancora il canonico Pes, Gavino Pes, Pietro Pisozzi, il padre scolopio Luca Cubeddu e poi ancora tanti altri cultori da Licheri, a Ricci, Diego Mele di Bitti, all'altro Diego Mele non meno noto di Olzai, si sono cimentati nel voler dare dignità letteraria al sardo nella poesia. Ma un altro ecclesiastico, il canonico Salvatore Carboni pubblicava polemicamente in sardo i suoi "Sos discursos sardos in limba sarda"nel 1881. In questo libro egli rimpiange che l'Isola: "oe provinza italiana no podet tener sas lezzes e sos atos publicos in sa propria limba"e affermava con forza che "sa limba sarda tottu chi non uffiziale durat in su populu sardu cantu durat sa Sardigna" e si interrogava:"ma proite mai nos amos a disperezzare cun d'unu totale abbandonu sa limba sarda antìga e nobile canto s'italiana, sa franzesa e s'ispagnola?".E non posso non ricordare il famoso sacerdote di Berchidda, Pietro Casu che in versi e in prosa usò con rara maestria la lingua sarda, predicatore di grande efficacia, le sue "preigas" in logudorese erano richieste, ascoltate e capite dal popolo colto e non, ovunque, nelle semplici chiese del villaggio, in Logudoro e in Barbagia e in Campidano e negli stessi duomi di Cagliari e Oristano, città quest'ultima dove tenne tutto un quaresimale ormai ricordato da molti fedeli arborensi, in sardo, nel 1931, ma va inoltre ricordato che non solo le "preigas" ma i novenari, le preghiere, lo stesso rosario, erano recitati in sardo, così pure il canto dei gosos. Ma già allora a Cristo ci si poteva rivolgere in sardo senza commettere peccato e senza sporcarsi la lingua. Ed oggi? Dopo la "Pacem in terris" e il suo dettato: "Risponde ad una esigenza di giustizia - dice la "Pacem in terris" - risponde ad una esigenza di giustizia che i poteri pubblici portino il loro contributo nel promuovere lo sviluppo umano delle minoranze con misure efficaci a favore della loro lingua, della loro cultura e dei loro costumi". Il pontefice Giovanni XXIII è scomparso da tempo. Quanti cattolici hanno recepito e fatto proprio ed attuato il suo dettato e il suo invito?
La salvaguardia delle comunità linguistiche è uno dei doveri fondamentali di ogni struttura politica, esiste per le stesse comunità linguistiche il dovere di conservazione come dovere morale, la morale condanna il suicidio, così come la morale delle etnie dovrebbe obbligare le comunità linguistiche a sopravvivere e a svilupparsi. Duplice quindi il fondamento della difesa delle lingue, soggettivistico, democratico, il diritto alla vita per ogni etnia, oggettivistico, il dovere per ogni etnia di contribuire all'arricchimento culturale dell'Europa e del mondo. Come si può pretendere, alla persona umana, se non ci si prende cura della sua lingua e della sua cultura, come parlare di parità di diritti, quando alle minoranze si rifiutano le scuole e le altre prestazioni culturali che gli Stati sovrani dispensano con larghezza alla maggioranza?
Agendo o astenendosi dall'agire, gli Stati sovrani perseguono l'estinzione delle lingue minoritarie, ma tant'è che nel mondo attuale delle sovranità le maggioranze rifiutano alle minoranze quei diritti che esse stesse, ma solo per sé stesse, e per altre che non rientrano nei propri confini, considerano più sacri. Così ai sardi fu imposto lo spagnolo dai conquistatori iberici e poi l'italiano nel secolo scorso, senza alcuna tutela della lingua madre. Per riferirci al continente italiano, è opportuno ricordare che nel 1861 parlava o comunque usava il latino di Firenze il 2,5 per cento della popolazione del nuovo Stato unitario. Ne consegue che a tutti gli altri, questo latino fu imposto con la forza della legge. Tullio De Mauro la cui autorità come linguista è indiscussa, rileva che nel 1901 veniva censito nel totale della popolazione sarda un 58 per cento di analfabeti e ancora tale percentuale risultava del 23 per cento nel 1951, certamente tra coloro che venivano censiti come alfabetizzati venivano censiti molti solo perché apponevano a fatica la loro firma. Dopo 75 anni di scuola italiana, di burocrazia in italiano, dopo 38 anni di televisione italiana, la lingua sarda esce provata oggi, ma non vinta, perché resiste ancora con grande vitalità non solo in campagna ma nella stessa città. Andate dal barbiere, qua, vicino al palazzo della Regione, e sentirete i popolani della Marina parlare in un cagliaritano armonioso e solenne. Con decreto legislativo luogotenenziale del 7 settembre 1945, emanato in fretta e furia per sventare la minaccia di secessione della Valle D'Aosta, fu decisa la tutela della minoranza di lingua francese; con l'accordo di Parigi del 5 settembre 1946 fu decisa la tutela del minoranza di lingua tedesca in provincia di Bolzano; entrambi provvedimenti dettati dalla necessità non da scelte e da principi di democrazia. La tutela della minoranza di lingua slovena della provincia di Trieste deriva invece dallo Statuto speciale firmato a Londra il 5 ottobre 1954; la minoranza slovena della provincia di Gorizia è tutelata in virtù della firma del trattato di pace del febbraio 1947 regolarizzato con legge nel 1961. Se trattati ed accordi internazionali tutelano dette minoranze la Costituzione repubblicana all'articolo 6 definisce con il suo contenuto normativo lo stato delle altre minoranze. "La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche". Si è tanto disquisito su questo articolo, oggi, dottrina e giurisprudenza costante - diverse sentenze della Corte costituzionale sono state emanate sulla materia nell'ultimo decennio - confermano che la Repubblica tutta ai vari livelli, Parlamento e Regioni, non solo possono ma debbono con norme proprie disciplinare la tutela in tutte le sfere e negli ambiti che a loro competono. Promulgata la Costituzione, per quanto riguarda la Sardegna, l'articolo 6 è rimasto lettera morta; la specificità della Sardegna continua ad essere attribuita alla sua arretratezza e povertà economica e non soprattutto al suo patrimonio storico, linguistico, antropologico, culturale da tutelare. Solo Lussu alla terza tornata della Consulta regionale sarda, nei giorni del 30 e 31 dicembre 1946, intervenne affermando di ritenere che si dovesse sancire l'obbligo dell'insegnamento della lingua sarda, in quanto essa è un patrimonio millenario che occorre conservare. Dopo decenni di Costituzione tradita, o quanto meno inattuata, la Commissione cultura della Camera dei deputati ha licenziato una proposta di legge finalizzata all'applicazione dell'articolo 6, per la tutela delle minoranze linguistiche tra cui quella sarda. Anche il Consiglio regionale dopo pagine poco esaltanti del passato ha ripreso in esame una proposta di legge in materia di lingua e cultura sarda non molto coraggiosa, non ci soddisfa appieno come sardisti, ma frutto di onorevole compromesso tra le varie forze politiche. L'accettiamo convinti, secondo la saggezza sarda che, in caminu s'assetat barriu e seus in caminu. È pacifico che una lingua si salva soltanto se la si insegna a scuola o meglio se s'insegna a scuola in quella lingua, una lingua che non si insegna si uccide, se la lingua locale è solo insegnata si uccide come lingua viva e si musealizza.
I ragazzinon arrivano a padroneggiare la forma colta e la lingua familiare si cancella davanti a quella dello Stato e della televisione. Con il riconoscimento della lingua e il suo ingresso nella scuola nei suoi diversi gradi, la minoranza ottiene solo le condizioni indispensabili per una certa sopravvivenza. Di qui, e ho quasi finito, la necessità del suo uso da parte dei mezzi di informazione di massa e la sua abilitazione negli uffici, nelle assemblee delle varie istituzioni. L'approvazione della legge segnerà una svolta storica per il popolo sardo che ripropone il suo autogoverno, rincominciando da una decisa presa di coscienza della sua inconfondibile identità. Partendo da questo presupposto, i sardi sapranno individuare e percorrere vie nuove nell'unità per il progresso dell'Isola; questo nostro dibattito elevato, uno tra i pochi di grande spessore culturale e di estrema importanza politica svoltosi in quest'Aula, segna anche un chiaro e netto crinale tra chi crede e chi non crede nel diritto all'autogoverno e all'autodeterminazione dei popoli. I sardi, in virtù dei propri valori linguistici e culturali, costituiscono un popolo con i relativi conseguenti diritti di popolo. Ci rendiamo conto che qualche nostro collega, in questa Assemblea, non crede o rinuncia per sé e pretende di rinunciare per gli altri, del passato, del presente, del futuro, alle specificità di lingua e di cultura dei sardi, alla loro tutela, valorizzazione, crescita e uso in tutte le sedi. Compiuta questa rinuncia non hanno più senso né autodeterminazione, né autogoverno, né federalismo. La Sardegna come Regione non può che apparire, e non lo è, una semplice istituzione di ordine amministrativo. E' stato detto che la rivolta dell'oggetto parte da qui, e qui ed ora si configurano e si rivelano lo schieramento forse trasversale del rinnovamento e del progresso, e lo schieramento di quanti intendano attardarsi nei vecchi sentieri della subalternità culturale che diviene, si conferma e si è affermata, quale subalternità politica, economica e sociale.
PRESIDENTE. Onorevole Ortu la prego di arrivare alla conclusione.
ORTU (P.S.d'Az.). Ho finito. Chi sente profondo e forte il senso dell'identità, della sardità, del rinnovamento, deve esprimere oggi e qui il coraggio e la responsabilità di una scelta che non è solo culturale ma è anche e soprattutto politica. Il popolo sardo ha bisogno più che mai, oggi, di una classe politica, di una sua leadership determinata e coraggiosa in cui credere e a cui affidare il futuro. Le difficoltà e le perplessità espresse sulla legge sono veramente piccole cose, granelli di sabbia, non sono montagne invalicabili e sarebbe da incoscienti e pavidi non superarle e vincere a fronte dei grandi obiettivi, delle grandi scelte, degli orizzonti nuovi, qualcuno parlava di nuove frontiere, che ci è dato intravedere e che la legge ci consente di conseguire. Certo non è in questa legge tutto quanto avremmo voluto, certamente no, ma in politica, nell'avanzamento culturale, sociale e civile dei popoli, nella storia le tappe non si bruciano e si conquistano di slancio, d'un colpo. Con questa legge, si può aprire un nuovo corso nel processo storico, sempre molto accidentato, dell'autoconsapevolezza e dell'autonomia del popolo sardo, dobbiamo essere noi stessi i primi consapevoli. Ha ragione il poeta militante che ha scritto: "Essere fedeli alla propria lingua non significa essere fedeli a un passato ma scommettere su un avvenire". La legge che oggi è all'attenzione nostra, del Consiglio è una sfida che si propone per l'avvenire dei sardi.
PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussine generale. Per esprimere il parere della Giunta ha facoltà di parlare l'Assessore della pubblica istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport.
AZZENA, Assessore della pubblica istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport. Devo premettere che la mia formazione giuridico-formalistica, diciamo così, mi fa sentire impari rispetto ai vertici che in molte occasioni ha toccato il dibattito sia stamane che oggi pomeriggio, che ieri. Mi sembra anche che proprio tante delle cose che sono state dette in maniera così efficace, per quanto riguarda la necessità e le esigenze che sono alla base dell'approvazione di questa proposta di legge, mi esima dal ribadire quanto è stato detto. Posso citare l'onorevole Cocco, posso citare l'onorevole Salis e potrei citare molti altri, a iniziare dal relatore ufficiale del legge. Vorrei anche constatare, proprio per limitare questo discorso all'essenziale, che mi è sembrato di cogliere un diffuso consenso, anche da parte degli interventi più critici, quello dei rappresentanti del Movimento sociale, quello per altro verso, all'opposto diciamo, dell'onorevole Pubusa, quello dell'onorevole Selis. Anche in tutti questi interventi, mi sembra, non è stata mai messa in discussione questa esigenza di fondo, almeno per quanto riguarda la necessità di interventi a sostegno della cultura di noi sardi in tutte le sue multiformi manifestazioni. Le obiezioni sono, semmai, venute relativamente ai problemi più specifici posti dalla tutela linguistica; e qui si sono viste preoccupazioni anche - consentitemelo non vuole essere spregiativo - di ordine ancestrale. Del resto, proviamo, un momentino, a leggere i primi articoli della legge che qualcuno ha criticato, per me incomprensibilmente, proviamo a leggerli in maniera inversa, cioè proviamo a dire che la Regione sarda evita accuratamente di proporsi quegli obiettivi e di dotarsi di quegli strumenti che sono indicati nella prima parte della legge. Credo che ciascuno di noi, senza eccezione, inorridirebbe. Cioè direi che, semmai, se si può fare una critica alla legge è quasi quella di dare nella prima parte degli enunciati, che possono essere per certi aspetti scontati, e lo dico anche sapendo che nei primi articoli è ripreso un contributo che viene da persone colte, ed è frutto anche di una successiva limatura, approssimazione, quindi di un certo travaglio, anche nel discutere queste cose. Sono anche ben consapevole, quindi, che c'era una difficoltà definitoria, ma c'era una difficoltà che andava al di là di un comune sentire, sostanzialmente, e appunto questo si vede bene - se vogliamo indulgere a questo - leggendo al rovescio, sostanzialmente, queste prime disposizioni. Quindi, non credo che queste prime disposizioni si possano ritenere pleonastiche, se non nel senso che dicevo, nel senso che c'è un comune accordo sulla necessità di intervento a tutela della lingua e della cultura sarda. Del resto, per quanto riguarda la lingua - e qui mi vorrei rivolgere ad alcuni degli intervenuti che ho sentito appunto da destra, se è ancora lecito usare questi termini, ma lo uso anche in senso, come dire, parlamentare - dobbiamo riconoscere che c'è stato un periodo della nostra storia, dico non della nostra storia di sardi semplicemente, ma della nostra storia di sardi in quanto parte di una più grande nazione e di un più grande Stato, che ha visto invece conculcata la lingua, cioè ha visto attuarsi anche attraverso strumenti normativi, ma ancor di più attraverso strumenti amministrativi, un intervento ispirato a una certa filosofia e a una certa logica, che era quella che l'acquisizione di una lingua comune, di un mezzo di espressione culturale, ma direi vitale, comune, dovesse passare per fora attraverso la mortificazione della lingua originaria, del dialetto originario. Non ho una profonda cognizione linguistica che mi faccia cogliere la differenza, direi che sono mezzi di espressione verso l'esterno, mezzi di relazione. Per costringere a imparare l'italiano, ad acquisire dei mezzi di espressione comune, si riteneva necessario porre l'alternativa drastica, sopprimere il patrimonio culturale originale. A me sembra che ormai sia scontatissimo che così non è. Nessuno di noi, quando apprende l'inglese, ha il timore o sente la necessità di dimenticare l'italiano; c'è una sovrapposizione di acquisizioni del patrimonio linguistico e c'è una capacità della nostra mente, proprio nel senso di capere, che è tale da non far sì che chiodo scacci chiodo, quindi che apprendendo una nuova lingua si dimentichi il patrimonio linguistico preesistente, già acquisito; è esattamente il contrario. E' molto più facile apprendere una terza lingua quando se ne conosce una seconda che non quando si conosce solo la lingua originaria, ed è anche frequente conoscere delle persone che non solo parlano più lingue ma che, contrariamente a quello che è stato detto da qualcuno, pensano in più lingue, arrivano a pensare o a sognare indifferentemente anche in un'altra lingua. Quindi a me sembra ovvio, sembra una cosa scontata che non si debbano porre in alternativa le due cose, che sia stato un grosso errore e che quindi non si debba avere la minima preoccupazione sul fatto che la difesa della lingua sarda possa comportare degli svantaggi dal punto di vista comunicativo e interrelazionale. Semmai direi una cosa, che proprio da quel tipo di constatazione storica si può ricavare una giustificazione ulteriore alla legge e forse anche a qualche preoccupazione di troppo che si può leggere e che è stata da taluni letta e forse anche enfatizzata nella legge. Cioè è proprio perché la lingua sarda è stata conculcata che ora è necessaria una certa sorta di cura nel suo ripristino, nel suo restauro in un certo senso, che non vuole essere un restauro falso, una superfetazione, vuole essere invece un qualcosa di riparatorio, un qualcosa che riconsenta un habitat laddove questo habitat è stato perso, è stato distrutto volutamente per la lingua sarda. E poi direi un'altra cosa, non l'ho sentita riecheggiare, quindi non so quanto sono nel vero, la dico a titolo personale, ma direi che se con questo poi la lingua sarda dovesse diventare recessiva, così come sono diventate tante lingue, sono state citate per esempio nell'intervento dell'onorevole Zucca lingue che hanno avuto un espressione letteraria altissima, alcuni dialetti greci, così come si è espresso l'onorevole Zucca, questo farebbe parte del continuo divenire della cultura, ma sarebbe frutto di un processo naturale. Quello che è da evitare, e che la legge mi sembra vuole evitare, è che questo avvenga invece per sciatteria, non più per un'attività tesa a conculcare quel mezzo di espressione, ma comunque per una progressiva desertificazione, sostanzialmente, dell'habitat culturale in cui una lingua vive, di cui una lingua è espressione. Questo per cercare di dare un contributo al superamento delle perplessità che sono venute da alcuni degli interventi e che, come dicevo, riguardano più la lingua che non ha difesa della cultura.
Veniamo quindi agli aspetti più tecnici. Vorrei prendere lo spunto proprio dall'intervento che non condivido minimamente del collega Pubusa; lo dico e mi dispiace che non sia presente perché credo che il suo intervento sia gravemente monco rispetto a cose che io so che lui sa, perché, come docente di livello elevato della materia, sa benissimo che le forme organizzative sono diverse, e che non è un canone fisso quello che una legge debba seguire una sorta di doppio binario, avere un aspetto cioè organizzativo e un aspetto funzionale; un aspetto organizzativo, passatemi il bisticcio di parole, funzionale all'aspetto delle funzioni. Questa legge, come altre leggi, invece segue un altro schema che pure esiste e che appunto gli amministrativisti non ignorano, che è invece quello di dare modalità organizzativa per l'espressione, perché ci sia la possibilità di far emergere dei contenuti. Non deve essere in altre parole il Consiglio regionale a dire quali sono le istanze culturali che verranno e che sono presenti e latenti nella realtà storicamente attuale della Sardegna. Questo tipo di contenuti la legge lo avrà quando inizierà a funzionare, quando sarà arrivata a regime, quando opereranno quegli istituti che hanno proprio la funzione di capire attraverso quali modalità, attraverso quale tipo di interventi si potrà giungere agli obiettivi della legge. Quindi questa è una legge soprattutto di obiettivi e di organizzazione. Non so come i miei interlocutori giudichino la legge 833 del 1978, la legge di riforma sanitaria. Anche la legge di riforma sanitaria, che era una legge importantissima seguiva questo schema: enunciazione di obiettivi, fari puntati sulla prevenzione e sulla riabilitazione e non soltanto sugli aspetti strettamente curativi, e delineazione di una struttura e che è quella delle USL, quella del Consiglio nazionale della sanità e così via - alcune di queste strutture non hanno poi funzionato - che servivano proprio a dare corpo alle possibilità di intervento e alla individuazione degli interventi che poi passavano attraverso i vari piani sanitari nazionale e regionale. Ed erano quelli i piani che delineavano soprattutto i contenuti della legge, il modo di operare della legge. Da questo punto di vista, io credo che la legge sia congegnata in modo da poter funzionare. La funzione, non tanto dell'Osservatorio quanto del Comitato tecnico scientifico per la lingua e per la cultura dei sardi, è proprio questa, è la funzione di farsi interprete di quello che c'è di inespresso nella cultura sarda e di additarlo come obiettivo per l'azione amministrativa che è richiesta alle stesse strutture regionali per arrivare al conseguimento di questi obiettivi. E proprio per queste ragioni va sottolineata l'estraneità di queste strutture alle strutture ordinarie dell'apparato regionale, perché qui stiamo parlando di cultura; io non ignoro che in altre circostanze questo tipo di schema non è piaciuto al Consiglio regionale della Sardegna. Ma qui stiamo parlando di cultura e il censimento delle esigenze è un'operazione delicata che non si può rapportare a quella che potrebbe avvenire nell'industria, che potrebbe avvenire nel turismo, che potrebbe avvenire in altri settori. L'espressione culturale è un'espressione che non può essere colta da strutture burocraticamente organizzate. Proprio per questo si è inteso dare - e mi sembra che opportunamente la legge configuri delle strutture agili - delle strutture di raccordo, delle strutture di pressione sulle strutture amministrative che sono inevitabilmente serventi rispetto alle strutture invece che sono deputate a far emergere queste problematiche. Ed è necessario che queste strutture siano popolate da persone con una particolare qualificazione, con un particolare atteggiamento mentale, che non è quello dell'amministrativo giurista versato in tecniche amministrative o dell'amministratore organizzatore versato in tecniche organizzative. Anche qui non voglio cadere nell'errore dell'onorevole Pubusa; voglio dire che questo risultato potrebbe essere conseguito tecnicamente anche in modo diverso, per esempio congegnando dei concorsi ad hoc per il reclutamento, all'interno delle strutture regionali, di personale che abbia le caratteristiche necessarie. Ricordo che, nell'unica occasione in cui io ho partecipato al concorso per il reclutamento del personale di questa Assemblea, avevo constatato con sorpresa, ma anche con piacere, che non c'era nessuna limitazione di laurea, potevano concorrere gli ingegneri, potevano concorrere i letterati, i giuristi, gli economisti e così via.
E' però necessario che chi opera in queste strutture e particolarmente nell'Osservatorio abbia una particolare mentalità e si raffiguri il suo compito come un compito non meramente burocratico.
Debbo dire che l'esperienza di questi mesi di Assessorato mi ha fatto vedere come all'interno dell'Assessorato questo tipo di capacità recettiva, di antenne e quindi di competenze specifiche fatalmente manchi, ci sono dei settori - cito per esempio quello della musica - con cui effettivamente, per la struttura dell'Assessorato , è piuttosto difficile interagire. Quindi ritengo che ben venga questa struttura parallela, da qui però la necessità di assicurare un raccordo, di assicurare un raccordo di vertice nella persona dell'Assessore e di assicurare un raccordo tra i vari livelli.
Allora, quando si imputa al legge per certi aspetti, passatemi l'espressione, di scadere a livello di regolamento questo è dovuto alla preoccupazione - e chi ha partecipato ai lavori della Commissione lo ha visto molto chiaramente - di calibrare bene, di coordinare bene le due strutture, di far sì che l'una non prevarichi sull'altra e che l'una non sia appunto scoordinata e scollegata rispetto all'altra. Su questo si sono scontrate opinioni diverse circa il mixage di struttura, di poteri dati alla struttura preesistente e di poteri dati invece alla struttura che si viene a creare e dalla quale ci si attende una certa elasticità e una certa duttilità. Quindi non mi sembra che ci possa essere questa preoccupazione, cioè la preoccupazione che la legge scada a una sorta di minuta espressine di segmenti, chiamiamoli così, organizzativi. E' vero invece, e questo mi ha un po' sorpreso - lo ha notato l'onorevole Cogodi nel suo intervento, ma forse perfezionerei il suo pensiero, non so se lui sarà d'accordo con me, come io ero d'accordo con lui - che, al contrario di quello che è stato detto dall'onorevole Selis, io non ho notato un calo di tensione all'interno dell'Assemblea; ho invece notato una certa disattenzione da parte della stampa, che è stata rappresentata con toni assai crudi e incisivi da parte dell'onorevole Cogodi, ma quello che mi ha più sorpreso e lasciato un po' perplesso, perché potrebbe essere segno anche di una distonia tra rappresentanti e rappresentati, è l'assenza della cultura sarda. La legge che aveva suscitato dibattiti pluriennali rischia di essere approvata senza nessuno degli uomini di cultura abbia detto nulla neppure per esprimere compiacimento perché finalmente il Consiglio regionale è tornato ad occuparsi della legge sulla cultura.
Francamente mi sarei aspettato anche dall'onorevole Selis - che proprio in quest'Aula, quando si trattò di approvare la così detta leggina sulla cultura, aveva sollecitato una legge quadro - un'espressione di soddisfazione perché finalmente la legge quadro è in discussione. Da questo punto di vista dissento dal fatto che si potesse contestualmente approvare le leggi di settore, perché questa, in quanto legge quadro delinea un modello che sicuramente dovremo ritrovare nelle altre leggi di settore. Ma c'è un accordo che aleggiava, almeno fino a qualche giorno fa, spero che poi le vacanze non lo facciano disperdere come neve al sole, per un impegno invece a discutere in questa stessa Aula, alla ripresa, le altre leggi di settore e spero che anche la Giunta e l'Assessorato non si facciano cogliere impreparati, anche perché di materiale già elaborato ce n'è parecchio e anche, in buona parte, di qualità. Io anzi direi che se fosse possibile vedrei un rodaggio a spese della legge quadro, diciamo così, prima di passare a ripetere il modello sulle leggi di settore. Se noi potessimo, con un colpo di bacchetta magica, acquisire questa esperienza di attuazione della legge quadro certamente saremmo agevolati nel sapere quale taglio dare alla nuova legge di settore. Ecco, se io non sto dimenticando altre cose, dire che da questo puto di visita ritengo che in questo stiano gli aspetti positivi della legge.
Sono state espresse perplessità sul finanziamento. Da questo punto di vista, perché l'ho detto in Commissione, voglio essere coerente, lo dico a titolo personale, anch'io ho alcune perplessità che sono di un duplice ordine: da un lato perché ritengo che - come in tutte le leggi che si rispettino che sono sempre perfette e perfettibili - qualcosa sia suscettibile di non funzionare e, per altro verso, ritengo che ci sia anche la possibilità di puntare di più, come diceva l'onorevole Tarquini, sul volontariato. Da questo, però, a dire che una legge come questa si possa esclusivamente reggere sul volontariato ce ne corre. Quindi direi che ci sono alcune parti della legge dove l'impatto sarà indubbiamente difficile. Non credo che giovi nasconderselo. Per quanto riguarda la realizzazione delle norme sul bilinguismo, sia all'interno della pubblica amministrazione, sia nella scuola materna, indubbiamente ci saranno difficoltà che porranno a dura prova coloro che si troveranno ad attuare la legge. Sono, come dire, le zone più difficili, in cui la legge risulta di più difficile applicazione, però queste perplessità, che possono essere più fondate di quelle che riguardavano gli altri aspetti della legge, non tolgono complessivamente validità ad una legge che nella sua complessità è molto articolata ed ha delle rigidità che però sono giustificate dalle ragioni che vi ho esposto. Per questo io mi rallegrerei se il Consiglio regionale ritenesse che questa legge merita di essere approvata.
PRESIDENTE. Non passiamo alla votazione per il passaggio all'esame degli articoli per consentire nella giornata di lunedì di fare una sintesi dei contributi numerosi e notevoli che sono emersi da questo dibattito. I lavori del Consiglio riprenderanno martedì 3 agosto alle ore 10.
La seduta è tolta alle ore 20 e 20.