Palermo, 9 marzo 2017
Buon pomeriggio a tutte e tutti,
ho accolto con molto piacere l’invito del prof. Sajia ad essere presente qua oggi in questa prestigiosa sede con il mio collega, il presidente Ardizzone che saluto, per riflettere insieme sull’esperienza autonomistica a ormai quasi 71 anni fa dall’approvazione dello statuto siciliano, e a quasi 68 anni da quello sardo.
Lasciatemi dire in premessa che bisogna fissare un punto e tenerlo fermo: l’autonomia e la differenziazione dell’ordinamento giuridico degli enti regionali non sono rivendicazioni da giustificare, ma precise esigenze costituzionali, tratti del nostro ordinamento che non si possono ignorare.
Autonomia significa differenziazione e a sua volta la differenziazione non è una scelta, ma una conseguenza necessaria della diversità. Giuridicamente necessaria, perché è il principio costituzionale di uguaglianza ad esigerlo: situazioni uguali vanno trattate in modo eguale, ma situazioni diverse vanno trattate diversamente.
Il Consiglio regionale della Sardegna si riunì per la prima volta il 28 maggio del 1949, secondo in ordine di tempo solo al vostro. La Sardegna e la Sicilia furono protagoniste insieme alle altre regioni speciali del nuovo faticoso cammino delle autonomie regionali, tracciando il percorso per l’affermarsi, dopo oltre vent’anni, delle regioni ordinarie che oggi, dimentiche della storia, troppo spesso confondono l’esigenza di difendere e confermare la specialità come una fastidiosa anomalia e un ingiustificato privilegio.
Iniziava allora la storia della speciale autonomia della Regione Sardegna che per la prima volta aveva organi di espressione democratica dei Sardi e la possibilità di concorrere a decidere il proprio futuro.
L’esperienza autonomista si prospettò sin dai sui primi atti come l’occasione per il riscatto della Sardegna da secoli di abbandono e sfruttamento e per l’avvio di una stagione di crescita e di progresso di cui la stessa popolazione sarda potesse essere protagonista.
In Sardegna l’esperienza autonomistica regionale ha sicuramente svolto una funzione unificante, radicandosi nell’ identità delle popolazioni e portando ad esprimere e rappresentare, pur nelle evidenti e sentite diversità locali, le ragioni di un comune sentire dell’essere sardi.
L’istituzione democratica regionale, disegnata proprio sul modello parlamentare e regolamentare della Camera dei Deputati, si è radicata profondamente diventando riferimento di tutte le istanze politico – istituzionali, trovandosi spesso sovraccaricata di un eccesso di responsabilità rispetto a compiti e decisioni che lo Stato, ieri come oggi, trattiene e non condivide.
Al di là dei limiti e delle difficoltà che investono oggi tutte le istituzioni regionali, la regione è percepita ancora oggi in modo diffuso e condiviso come istituzione (esclusiva) di rappresentanza ed espressione della specialità (sia in un’ottica contestativa verso lo Stato, sia in un’ottica di responsabilità verso la comunità regionale). Per i cittadini come per le stesse autonomie locali, la regione è il naturale riferimento e l’interlocutore principale in relazione a tutte le politiche, comprese quelle di competenza statale.
Caso forse unico nel panorama nazionale, la nascita della regione autonoma ha concorso a creare quello spiccato senso identitario che fa oggi dei sardi un popolo.
Le istanze autonomiste, con varie sfumature (federaliste, sovraniste, indipendentiste) sono oggi in netta ripresa ed ampiamente rappresentate sia in Consiglio regionale, sia nelle istituzioni locali, sia nella popolazione, che vede spesso nell’insufficiente facoltà di autodeterminazione uno dei limiti più gravi al proprio sviluppo.
E’ condivisa la convinzione che senza l’autonomia le istanze dei sardi e la peculiarità della loro condizione rimarrebbero senza rappresentanza e ininfluenti rispetto a un continente ed uno Stato sempre più attratto da politiche ed interventi a carattere europeo ed internazionale.
Dimostrazione ne è l’esito del voto sul referendum costituzionale che ha visto registrare in Sardegna una partecipazione del 62,5% degli aventi diritto (considerate che alle ultime regionali hanno votato solo il 52 % dei sardi), con la prevalenza del 72,2% dei no. E questo perché, nonostante tutte le rassicurazioni sbandierate, la riforma è stata vissuta come un attacco alla autonomia regionale.
In questo quadro riteniamo che lo statuto sardo mantenga inalterato il significato che dal 1948 gli viene attribuito.
E’ evidente che non arretreremo di un passo sulla specialità; l’esperienza autonomistica è tutt’altro che conclusa.
La specialità della Sardegna mantiene intatte tutte le motivazioni da cui trae origine; talune sono destinate a permanere e riguardano l’ evidente differenza geografica, legata all’ insularità e ai riflessi che questo comporta sul piano economico, culturale, dell’ambiente; talune di queste specificità sono destinate ad essere recuperate o colmate o compensate, altre richiedono di essere valorizzate e salvaguardate; in generale è difficile concepire, in moltissimi ambiti, politiche efficaci – anche se di competenza statale – che non abbiano carattere regionale, non siano cioè adeguate e mirate alla Sardegna.
Si pensi fra tutte alle politiche infrastrutturali: la Sardegna è terz’ ultima nelle graduatorie di viabilità e trasporti e – nonostante ciò – è esclusa da tutti i piani di infrastrutturazione nazionali, non partecipa alle politiche interregionali, non usufruisce ad esempio del metano perché non collegata al continente. Differenze che investono in modo diretto i diritti dei cittadini sardi alla mobilità, alla parità di condizioni di partenza per le iniziative economiche, alla possibilità di usufruire di servizi pubblici adeguati se non aventi sede in Sardegna.
E allora il tema del rapporto tra autonomia e stato, non è tanto un rapporto tra istituzioni, stato e regione, è un problema di parità di diritti, di possibilità di avere e di fruire degli stessi servizi tra cittadini che risiedono in continente e cittadini che vivono nella nostra regione.
Oggi l’autonomia speciale sarda sembra aver smarrito le ragioni che la giustificano, ed il progetto di superamento della situazione secolare di svantaggio economico e sociale che essa esprimeva va ripreso e attualizzato.
Certo si pone il problema di quale sia la via da seguire.
Da anni il dibattito regionale evidenzia le insufficienze dello Statuto del 1948, sia per il suo carattere riduttivo originario, sia per il quadro delle funzioni oggi inadeguato rispetto agli obiettivi, sia per l’intervenuta trasformazione del quadro istituzionale considerato soprattutto il ruolo ormai svolto dalle autonomie in tutto il territorio nazionale ed il peso sempre maggiore di organi extrastatali ed europei.
Insufficienza che non significa necessità di superamento ma richiesta di maggiori poteri e maggiore autonomia.
La Sardegna che non si è mai sottratta ai suoi doveri di solidarietà nei confronti del Paese chiede una reale integrazione economica e sociale, una reale integrazione politica e istituzionale e il rispetto dell’identità etnico-linguistica, culturale, insomma nazionale.
Il clima fortemente ostile alle regioni di questi ultimi anni mi aveva portato a pensare che la strada meno pericolosa e più concreta per raggiungere il risultato non fosse la riscrittura dello Statuto ma il rilancio delle forme pattizie di attuazione, a condizione di seguire un progetto consapevole di specialità.
Ma oggi, dopo la bocciatura della riforma Renzi – Boschi, il regionalismo può essere riproposto in termini più ampi, non più condizionato dai binari alquanto rigidi segnati dalla riforma respinta dal corpo elettorale e non si può nascondere che, pur collocandosi in un orizzonte più ampio, un effettivo ripensamento degli statuti speciali, accompagnato da un clima di rispetto delle specificità e della storia delle regioni interessate, non solo è necessario ma potrebbe concorrere in modo rilevante alla evoluzione complessiva del sistema regionale, anche di quello ad autonomia ordinaria.
Sono convinto, però, che solo in un sistema federalista rafforzato potremo avere la forza di valorizzare la nostra autonomia speciale.
Il rapporto univoco e bilaterale tra la Sardegna e lo Stato, che ha dimostrato tutta la sua debolezza fin delle origini, ha visto la regione impegnata in un combattimento impari che l’ha isolata nei confronti del movimento regionale complessivo e che ha prodotto un ritardo culturale e istituzionale depotenziando l’autonomia effettiva. Paradossalmente la Sardegna e tutte le regioni speciali con le norme di attuazione hanno avuto in ritardo le stesse funzioni delle regioni ordinarie. La causa di questo fenomeno in apparenza paradossale, ma in realtà connaturato con la specialità, è che mentre le regioni ordinarie si sono presentate unite al confronto con lo stato e quindi hanno messo in campo un forte potere contrattuale, le regioni speciali hanno negoziato i trasferimenti singolarmente. Quindi in una condizione di grande debolezza che ha portato all’inevitabile prevalenza delle logiche centralistiche dell’amministrazione statale.
Non posso nascondere che in questi anni abbiamo sentito più volte l’esigenza di ribadire con forza le ragioni della specialità perché sarebbe inutile negarlo, alla luce di una proposta di riforma costituzionale centralistica che di fatto cancellava la riforma del 2001, forte era il timore di un tentativo di superamento anche delle autonomie speciali.
E poi, d’altronde, parliamoci chiaro era veramente accettabile un adeguamento dei nostri Statuti ad una riforma che riduceva fortemente l’autonomia?
Il tema è in estrema sintesi come debba realizzarsi un regionalismo efficiente e realmente cooperativo, rispettoso delle reciproche competenze di Stato e regioni, delle specificità di ciascuna regione.
La domanda è se un regionalismo efficiente debba percorrere necessariamente le vie della legislazione della crisi e dell’accentramento, o piuttosto cercare con più convinzione forme di integrazione e cooperazione fra i due livelli, più rispettose dell’impianto costituzionale e del ruolo effettivamente svolto dalle regioni anche rispetto alla crisi economica.
Una prima constatazione è che lo Stato per primo non ha adeguato la propria struttura alle esigenze del regionalismo e non ha adottato una legislazione adeguata e rispettosa delle previsioni costituzionali, si pensi soltanto al mancato sviluppo della legislazione sui principi delle materie concorrenti, o alla carenza sempre più grave di un aggiornamento dei LEA.
Altrettanto decisivi per l’efficiente sviluppo delle funzioni regionali sono poi quelle politiche pubbliche gestite dallo Stato che hanno grande incidenza sul territorio e sulla qualità delle politiche locali (giustizia, ordine pubblico, coesione territoriale, infrastrutture, ricerca ecc.).
Altro aspetto determinante di un regionalismo evoluto è quello delle risorse; lo Stato ha fatto continuo ricorso al coordinamento economico e finanziario per limitare attività e politiche locali; di conseguenza ora vi è una scissione sempre più evidente fra compiti e responsabilità delle Regioni e dei territori e effettiva disponibilità delle risorse per farvi fronte. E’ un tema che riguarda non solo le Regioni ordinarie, ma anche – sia pure in modo diverso – e con difficoltà diverse, le regioni ad autonomia speciale, le quali per effetto dei cosiddetti accantonamenti vedono ridursi le disponibilità che dovrebbero essere loro garantite e invece accrescersi vieppiù funzioni onerose per effetto di scelte unilaterali statali (per es. ampliamento delle cure costose senza alcun incremento di risorse) ovvero per l’attribuzione di maggiori e ulteriori funzioni a risorse invariate.
La valorizzazione della specialità non contrasta con l’altro principio che anche nella recente proposta di riforma si è tentato di contrapporre: quello cioè delle asimmetrie delle autonomie regionali. Queste due direttrici meritano di essere messe a confronto; entrambe rispondono, su piani diversi, ad un principio di differenziazione che è proprio di ogni ordinamento effettivamente autonomistico. Finora l’apertura dell’articolo 116 comma 3 si è rivelata infeconda e solo richiamata da qualche iniziativa connotata politicamente. Ora è evidente che anche nell’ esperienza delle regioni ordinarie vi sono margini per sperimentare una certa differenziazione di funzioni e di compiti, in relazione alle particolarità delle diverse regioni.
Forse è il tempo di una evoluzione complessiva in chiave di un’autonomia responsabile ed efficiente dell’intero sistema. Un obiettivo di più lungo termine che può tuttavia contribuire non poco ad una maturazione della nostra democrazia.
Gianfranco Ganau
Presidente Consiglio regionale della Sardegna