Buonasera a tutte e a tutti,
è con molto piacere che porto il mio saluto e quello dell’intero consiglio regionale a questa importante iniziativa che si prefigge, a 70 anni dall’approvazione dello Statuto speciale della Regione Sardegna, di fare il punto sullo stato di salute delle istituzioni regionali. Riflessione che ritengo molto utile perché molto è cambiato da quella febbrile giornata nella quale l’assemblea costituente della neonata Repubblica democratica e antifascista approvava la legge costituzionale n.3.
Iniziava allora la storia della speciale autonomia della Regione Sardegna che per la prima volta aveva organi di espressione democratica dei Sardi e la possibilità di concorrere a determinare una vita capace di soddisfare i bisogni della propria comunità.
L’esperienza autonomista si prospettò sin dai sui primi atti come l’occasione per il riscatto della Sardegna da secoli di abbandono e sfruttamento e per l’avvio di una stagione di crescita e di progresso di cui la stessa popolazione sarda potesse essere protagonista.
In Sardegna l’esperienza autonomistica regionale ha sicuramente svolto una funzione unificante, radicandosi nell’ identità delle popolazioni e portando ad esprimere e rappresentare, pur nelle evidenti e sentite diversità locali, le ragioni di un comune sentire dell’essere sardi.
L’istituzione democratica regionale, disegnata proprio sul modello parlamentare e regolamentare della Camera dei Deputati, si è radicata profondamente diventando riferimento di tutte le istanze politico – istituzionali, trovandosi spesso sovraccaricata di un eccesso di responsabilità rispetto a compiti e decisioni che lo Stato, ieri come oggi, trattiene e non condivide.
Al di là dei limiti e delle difficoltà che investono oggi tutte le istituzioni regionali, la regione è percepita ancora oggi in modo diffuso e condiviso come istituzione (esclusiva) di rappresentanza ed espressione della specialità (sia in un’ottica contestativa verso lo Stato, sia in un’ottica di responsabilità verso la comunità regionale). Per i cittadini come per le stesse autonomie locali, la regione è il naturale riferimento e l’interlocutore principale in relazione a tutte le politiche, comprese quelle di competenza statale.
Le istanze autonomiste, con varie sfumature (federaliste, sovraniste, indipendentiste) sono oggi in netta ripresa ed ampiamente rappresentate sia in Consiglio regionale, sia nelle istituzioni locali, sia nella popolazione, che vede spesso nell’insufficiente facoltà di autogoverno uno dei limiti più gravi al proprio sviluppo.
E’ condivisa la convinzione che senza l’autonomia le istanze dei sardi e la peculiarità della loro condizione rimarrebbero senza rappresentanza e ininfluenti rispetto a un continente ed uno Stato sempre più attratto da politiche ed interventi a carattere europeo ed internazionale.
Autonomia e responsabilità, potrebbero apparire poca cosa oggi, ma se si pensa alla storia degli ultimi 2.000 anni della Sardegna, che è stata storia di dominazioni succedutesi una dopo l’altra ci si rende conto che la storia dei sardi è stata la storia degli altri, in cui i sardi hanno vissuto da spettatori quando non da vittime.
Non ci si deve stupire, dunque, se questo passo venne accolto come un fatto enormemente importante, e grandi furono le aspettative, le speranze, riposte in questa nuova istituzione regionale, anche se nacque nella scontentezza perché più ambizioso era il progetto.
Dico subito che dobbiamo essere orgogliosi di questi 70 anni di autonomia, di quanto è stato fatto, sono stati un periodo di straordinario progresso economico e sociale, di superamento della povertà, dell’analfabetismo, delle malattie.
L’ Italia è cresciuta e noi siamo cresciuti insieme a lei, ma in questo percorso di crescita comune la differenza tra nord e sud nonostante tutti gli sforzi non si è attenuata e per certi versi è aumentata. Questo ritardo altro non è che lo specchio di ciò che ancora non siamo riusciti a fare noi insieme alla Stato italiano perché è evidente che solo una leale collaborazione può far ottenere risultati positivi per tutti perché è stata la crescita di ciascun territorio, di ciascuna parte del nostro paese a consentire all’Italia di risollevarsi dalle macerie della guerra.
Da anni il dibattito regionale evidenzia le insufficienze dello Statuto, sia per il suo carattere riduttivo originario, sia per il quadro di funzioni oggi inadeguato rispetto agli obbiettivi, sia per la intervenuta trasformazione del quadro istituzionale considerato soprattutto il mutato ruolo che, a livello nazionale, ha assunto il complessivo sistema delle autonomie territoriali e il peso sempre maggiore di organi extra-statali ed europei.
Da anni ci diciamo che il percorso dell’autonomia sarda sembra incapace di raccogliere le sfide della modernità e di fatto nel dispositivo statutario neanche una parola sul diritto alla mobilità dei sardi, diritto alla mobilità sia all’interno del territorio regionale che, soprattutto, da e per la Sardegna.
Neanche una parola sul diritto ad essere collegati alle grandi reti dell’energia che muovono le industrie e le esigenze di una vita urbana moderna, neanche una parola o troppo poche parole su scuola, educazione, beni culturali, lingua, e neanche una parola naturalmente su temi che sarebbero entrati con prepotenza nella nostra vita quotidiana e nell’economia attuale, le telecomunicazioni, le reti digitali, internet; neanche una parola o troppo poche parole sulle responsabilità di autogoverno del territorio, nelle sue componenti fondamentali del paesaggio, dell’uso del suolo ai fini edificatori, ma anche della difesa del suolo dall’inquinamento, dall’abuso delle attività industriali e militari.
Neanche una parola sulla necessità di equilibrio nella presenza e in particolare modo nelle attività dell’esercito in Sardegna. Ancora oggi la Sardegna sopporta da sola il 61% delle servitù militari.
Dico subito e in maniera chiara che insufficienza non significa necessità di superamento, ma necessità di maggiori spazi di autonomia perché autonomia significa differenziazione e a sua volta la differenziazione non è una scelta, ma una conseguenza necessaria della diversità. Giuridicamente necessaria, perché è il principio costituzionale di uguaglianza ad esigerlo: situazioni uguali vanno trattate in modo uguale, ma situazioni diverse vanno trattate diversamente.
Dall’insularità discendono indubbiamente profili di peculiarità identitari e ambientali da valorizzare e declinare in positivo ma, è evidente, che tale condizione comporta, rispetto al territorio della penisola, l’impiego di maggiori risorse per assicurare alla comunità anche i servizi più essenziali e oggi come ieri sono tanti, troppi i sardi che emigrano non per scelta ma alla ricerca di un futuro. E allora dico che sbaglia chi minimizza il significato della battaglia per il riconoscimento in costituzione del principio d’insularità, questa è un battaglia identitaria che deve diventare una battaglia di popolo per coinvolgere e convincere tutti i sardi.
Ci sono ancora troppe remore nei partiti e in alcuni settori della società civile rispetto a questo percorso e credo sia un errore non cogliere sino in fondo il significato politico di questa battaglia.
Il tema non è se il referendum che hanno sottoscritto oltre 90 mila sardi avrebbe portato poi ad un risultato automatico, ma era semplicemente l’esigenza di tenere alta la tensione per arrivare a far esprimere i sardi su quello che altro non è che il riconoscimento di un diritto.
Il tema è in estrema sintesi come debba realizzarsi un regionalismo efficiente e realmente cooperativo, rispettoso delle reciproche competenze di Stato e regioni, delle specificità di ciascuna regione.
La domanda è se un regionalismo efficiente debba percorrere necessariamente le vie della legislazione della crisi e dell’accentramento, o piuttosto cercare con più convinzione forme di integrazione e cooperazione fra i due livelli, più rispettose dell’impianto costituzionale e del ruolo effettivamente svolto dalle regioni anche rispetto alla crisi economica.
Una prima constatazione è che lo Stato per primo non ha adeguato la propria struttura alle esigenze del regionalismo e non ha adottato una legislazione adeguata e rispettosa delle previsioni costituzionali.
La crisi economica ha rafforzato le politiche centraliste con sottrazione dell’esercizio di funzioni dalla periferia verso il centro, e in alcuni casi dalla stessa potestà statale ad altra sovrastatale. In pochi anni abbiamo visto l’inversione di quel processo di decentramento, seppur contraddittorio, avviato con la riforma del titolo V nel 2001, appena 14 anni fa.
Eppure è proprio questo che bisogna invocare per risolvere i problemi del Paese: più decentramento o meglio un decentramento reale che sia in grado di rimediare allo scollamento tra il livello nazionale e quello locale e che garantisca una più equa ripartizione delle risorse e dei sacrifici.
L’ urgenza è prima istituzionale che economica, bisogna accelerare il processo legislativo senza indebolire la democrazia; certo la democrazia rappresentativa ha un difetto, divora risorse materiali e spirituali ma è evidente che il valore della rappresentanza è un bene in se che non può essere sacrificato sull’ altare dei costi.
Il vero costo della politica è quello di scelte sbagliate prese per anni inseguendo il consenso elettorale e piegandosi ad illusioni semplicistiche ma popolari. Per riconciliare le istituzioni con i cittadini, gli elettori non serve meno ‘politica’ ma piuttosto la buona politica.
In questo momento di crisi per le istituzioni democratiche io sono convinto che diventi fondamentale il recupero della centralità delle assemblee legislative.
Dobbiamo riaffermare il fondamentale valore dell’istituto parlamentare nel sistema di equilibrio democratico, la crisi e la necessità di fare in fretta non può diventare scusante per la distruzione del sistema parlamentare e questo vale per il centro come per le periferie.
Il Consiglio regionale sardo ha particolarmente avvertito e sofferto la perdita di ruolo del legislativo, trovandosi stretto tra le attese suscitate dall’autonomia e la progressiva crisi dell’istituzioni parlamentari.
Gli iter legislativi possono essere semplificati e devono trovare strumenti di maggiore celerità, ma guai a pensare il percorso di formazione delle leggi e di confronto con esecutivo come un intralcio. Il Parlamento sardo al pari di quello italiano si trova troppo spesso stretto fra la necessità e l’urgenza di decidere e l’impossibilità di allargare il dibattito, favorire il confronto, esprimere la varietà delle posizioni per arrivare alla migliore soluzione.
Il tema dell’equilibrio dei poteri tra organo legislativo ed esecutivo è sicuramente un tema da affrontare ed ancora da risolvere, vanno esplorate forme di semplificazione dei percorsi parlamentari stando attenti che non vadano a discapito della completezza e del confronto tra la varietà delle posizioni in campo, così come devono essere potenziati gli strumenti di indirizzo e di controllo dei parlamenti sugli atti degli organi esecutivi ed introdotti strumenti di verifica e controllo sulle ricadute ed efficacia delle azioni definite da norme legislative.
La verità è che oggi è la democrazia a essere entrata in crisi proprio nei paesi centrali dove era maggiormente consolidata, una crisi caratterizzata da due patologie che colpiscono la partecipazione, vista la crescita preoccupante dell’astensionismo – che in Sardegna alle ultime regionali ha raggiunto una percentuale che oscilla tra il 46 e il 56 per cento – e la rappresentanza, visto che i cittadini si sentono sempre meno rappresentati dagli eletti.
La crisi della democrazie dovrebbe essere combattuta con maggiori autonomie e non con un rafforzato centralismo.
E quindi in conclusione dico che a 70 anni dall’approvazione dello Statuto, dobbiamo essere soprattutto orgogliosi di quanto riusciremo a fare per affrancare questa terra dall’incapacità di rispondere alle giuste esigenze di ciascuno di noi perché le ragioni dell’autonomia e della specialità risiedono nella responsabilità che hanno tutte le istituzioni, Stato, Regione, Enti locali di concorrere a realizzare pienamente la rinascita della nostra terra.
Gianfranco Ganau
Presidente Consiglio regionale della Sardegna