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Consiglio regionale: convegno sulle prospettive del regionalismo

Data: 28/04/2017 ore 09:00

In occasione della giornata de Sa die de sa Sardigna il Consiglio regionale della Sardegna ha ospitato un convegno sulle prospettive del regionalismo cui hanno partecipato i costituzionalisti Massimo Luciani, Stelio Mangiameli, Luca Antonini ed Andrea Pubusa, insieme a rappresentanti delle Regioni ordinarie e speciali, a Cagliari per un seminario di lavoro sulla materia.

I lavori sono stati aperti dal presidente del Consiglio regionale Gianfranco Ganau, anche nella sua veste di Coordinatore dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni a Statuto Speciale e delle Province autonome.

Nel suo intervento di saluto, Ganau ha ricordato brevemente la ricorrenza di Sa Die come episodio storico che ha visto la Sardegna rivendicare la sua forte richiesta di partecipazione alle scelte di governo, richieste che oggi mantengono attualità come rivendicazione di maggiore spazio di autonomia. Introducendo il tema del convegno Ganau ha poi sottolineato che,  dopo il referendum costituzionale, “si delinea un quadro di incertezza che richiede la ripresa di un ragionamento che punti alla piena attuazione del Titolo Và delle Costituzione e ad una nuova forma del rapporto fra Stato e Regioni, per invertire la tendenza fin qui dettata dalle legislazione della crisi e tracciare un quadro nuovo di integrazione e cooperazione fra Stato e Regioni più rispettoso dell’ordinamento costituzionale”.

Soffermandosi sulla specialità della Sardegna, il presidente del Consiglio, ha affermato che “è ancora radicata nel sentire comune pur con i limiti e le distanze che separano oggi le istituzioni dalla popolazione”. La specialità mantiene comunque fondamenti e motivazioni forti che discendono, ha proseguito Ganau, dalla necessità di superare lo svantaggio dell’insularità “con politiche particolarmente dedicate (si pensi alle politiche di infrastrutturazione statali da cui la Regione è esclusa, come collegamenti, trasporti, energia identità culturale e linguistica, specificità ambientali), il non colmato problema della distanza economica dal resto del Paese, che da un lato dovrebbe essere superata, dall’altro è ancora attuale e presenta particolarità per molti indicatori, per lo più connesse alle peculiari condizioni geografiche del mercato interno.”

Da questo contesto molto complesso, ha detto ancora Ganau, “nasce l’esigenza di aggiornamento degli Statuti speciali per mettere direttamente in relazione l’autonomia con le aspettative concrete dei cittadini.”

Le ragioni delle Regioni speciali, ha sostenuto infine Ganau, “non contrastano con quelle delle Regioni ordinarie, secondo l’indirizzo delle cosiddette asimmetrie, anzi meritano di essere messe a confronto potendo rappresentare le esperienze virtuose delle Regioni speciali un modello da perseguire secondo un principio di differenziazione che è proprio di ogni ordinamento autonomistico evoluto”. Per arrivare in definitiva, ha concluso, “ad un regionalismo efficiente e cooperativo che tenga conto, sia pure in una ottica di equità e solidarietà, delle diversità e particolarità di ciascuna esperienza regionale.”

Successivamente ha preso la parola il presidente della Regione Francesco Pigliaru che, riferendosi alla giornata di Sa Die ha parlato di “un evento di responsabilità e coraggio della nostra storia, che insegna quanto sia importante avere obiettivi ambiziosi e costruire una forte unità per ottenerli”. La relazione fra passato e presente ci pone nuove domande, ha continuato Pigliaru, “su diritti essenziali per la nostra terra, fondati su pari opportunità di sviluppo e lavoro con una governance multilivello caratterizzata da pari dignità, regole certe e risorse adeguate che ancora non ci sono, perché l’insularità determina per cittadini ed imprese uno svantaggio riconosciuto ancora in modo insufficiente a Roma come a Bruxelles”. Pigliaru ha poi ricordato il dossier dettagliato che la Sardegna ha sottoposto al Governo centrale, in cui sono evidenziati gli effetti distorsivi dell’insularità sui processi di sviluppo come sull’affermazione di diritti ed aspirazioni della comunità. In questa battaglia, ha aggiunto il presidente della Regione, “ora non siamo da soli ma assieme alla Corsica ed alle Baleari, tre Regioni insulari con molte esigenze comuni ed una piattaforma condivisa, fondata non solo sulla richiesta di risorse ma anche di strumenti nuovi come la fiscalità di vantaggio, un quadro di regole nuove perché quelle attuali non consentono di spendere adeguatamente i nostri soldi per i troppi vincoli, ed il superamento dei tanti percorsi ad ostacoli che dobbiamo affrontare, a cominciare da quelli legati al diritto alla mobilità e a collegamenti stabili in bassa stagione per le principali destinazioni internazionali: di questi problemi, in particolare, discuteremo al prossimo G7 sui trasporti che si terrà a Cagliari nel mese di giugno.”

Il presidente della Regione si è poi soffermato sui risultati raggiunti con la firma del Patto per la Sardegna con il Governo che contiene risorse importanti per co-finanziarie interventi sulla mobilità esterna ed interna, il metano e rete ferroviaria, conquiste importanti ma ancora insufficienti, perché la lotta di tutta la Sardegna deve continuare più forte e decisa, anche su partite come le servitù militari dove si sono fatti passi avanti troppo lenti ma mai indietro, e lo sblocco dei cantieri di La Maddalena indecenza, ed ancora la questione complessiva delle entrate e della finanza pubblica.”

In sintesi, ha concluso il presidente della Regione, “le distanze restano e nel nostro cammino vediamo luci e ombre, con molto terreno ancora da conquistare: su questo metteremo tutte le nostre energie nell’interesse dei sardi e della Sardegna”.

Dopo il presidente Pigliaru, è intervenuto il presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia-Giulia Franco Jacop, Coordinatore della Conferenza dei presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome.

Dopo aver formulato gli auguri al popolo sardo per una ricorrenza che richiama alla memoria “rivendicazioni che richiedono rispetto per la dignità di un popolo allora come oggi” ha dichiarato che “per le Regioni autonomia significa responsabilità e riconoscimento di diversità che non vogliono essere divisive ma affermative di specificità”. Il referendum, ha aggiunto, “ha interrotto un percorso di riforma che disegnava un modello diverso nel rapporto fra Stato e Regioni, con elementi  di accentramento non attenuati dall’istituzione del Senato delle autonomie; dobbiamo quindi riprendere la riflessione a tutto campo sul titolo V° Costituzione e, sotto questo profilo, le iniziative referendarie che si terranno in Veneto e Lombardia rilanciano istanze di differenziazione molto presenti e condivise nel panorama regionale.”

Conclusa la fase introduttiva il prof. Massimo Luciani, moderatore del convegno, ha dato il via alle relazioni mettendo l’accento sulla centralità del tema, affrontato dal presidente Pigliaru, delle pari opportunità di sviluppo in un quadro di regole precise, adeguatezza di risorse e superamento dei, tema che interessa tutte le Regioni. Dopo il referendum costituzionale, ha affermato, “occorre individuare nuove prospettive per il regionalismo italiano con una profonda riflessione scientifica, che peraltro non si è mai interrotta, e soprattutto con una riflessione politica”.

Il prof. Stelio Mangiameli, primo relatore del convegno, ha ricordato in apertura che “durante il dibattito sulla riforma costituzionale sono emerse due visioni opposte, un regionalismo speciale guardato negativamente ed una clausola di asimmetria individuata come chiave di volta, di qui un disegno non coerente del testo, in cui la cosiddetta clausola di salvaguardia per le speciali di fatto rinviava ai nuovi Statuti e nascondeva una certa tendenza all’omologazione”.

Il risultato referendario, ha proseguito, “ha risolto questi problemi riportando la situazione al momento precedente ma sarebbe un errore stare fermi al passato perché la crisi ha trasformato le istituzioni in modo permanente in tema di autonomia, responsabilità e risorse e, quanto all’asimmetria non c’è stata una spinta in questa direzione da parte delle Regioni ordinarie.”

Dalla parte delle speciali, ha osservato, “resta una differenza di qualità per via degli statuti costituzionali e di quantità per competenze, ma soprattutto una differenza fra quelle continentali e quelle insulari, con più competenze in quelle alpine in forte competizione con l’Europa e quelle insulari in grande ritardo di sviluppo e con un disagio complessivo aggravato da alti flussi migratori, spopolamento, degrado ambientale”. Un contesto che, secondo Mangiameli, ha in qualche modo favorito l’affermazione di un concetto di autonomia come separatezza. Sotto questo profilo, ha spiegato, “alcune proposte di autonomia totale con un fisco tutto sul territorio, come quella dell’Alto Adige, pongono problemi di legame con la Repubblica e di perequazione con le altre realtà regionali, ma la separatezza non è il terreno di crescita della specialità; piuttosto, dai nuovi statuti potrà emergere una specialità diversa, fondata sui principi di leale collaborazione e sussidiarietà, un campo non delimitato, ampio, nuovo, con spazio per le competenze ed un punto di caduta rappresentato dalla differenza di qualità all’interno della Repubblica ed identità locali compatibile con la solidarietà nazionale e politica”.

Ha preso poi la parola il professor Luca Antonini, ordinario di Diritto costituzionale a Padova, con una relazione dal titolo: “Oltre il paradigma dell’uniformità”.

“Siamo nel contesto del lungo day after che si è aperto dopo il fallimento del referendum confermativo di riforma del titolo V della Costituzione”, ha esordito lo studioso. “Era questo lo spirito del referendum, che centralizzava fortemente  il potere a danno delle regioni ordinarie.

E’ vero che il Titolo V ha funzionato male, ma c’erano fortissime responsabilità anche da parte dello Stato”.

Per lo studioso si è avverata la previsione del 1949 di Sturzo, ovvero il rischio che “un’autonomia mal inquadrata nella Costituzione avrebbe portato poi le Regioni ad essere considerate tra gli invalidi di diritto pubblico”.

Il professor Antonini ha proseguito: “Ora, dopo questo referendum, siamo alla seconda riforma costituzionale bocciata ma in questi quindici anni il tempo non è decorso invano. Intanto perché abbiamo tre lustri di giurisprudenza della Corte costituzionale e si è notevolmente ridotto il contenzioso della Corte con appena 90 procedimenti l’anno ed impugnazioni delle Regioni molto ridotte rispetto al passato”.

Il regionalismo differenziato, contenuto nell’articolo 116 riformato, è stato contrapposto nel ragionamento dello studioso “alla pretesa di uniformità delle Regioni che doveva servire, nelle intenzioni del Costituente, a produrre eguaglianza nei servizi e invece ha prodotto negli anni soltanto egualitarismo e nei fatti disuguaglianza. In realtà, i territori non sono elementi amorfi e non sono creta nelle mani del vasaio. Ad esempio, il modello sanitario della Lombardia è molto diverso da quello dell’Emilia e questo è un esempio della forza e della diversità dei territori.

Dunque, la Sardegna ha ragioni oggettive, non politiche, con la sua insularità, per dover essere considerata in modo differente anche rispetto alla Sicilia. Non possiamo più arroccarci dietro ragioni politiche di 70 anni fa per sostenere l’autonomia ma dobbiamo guardare i diritti sociali e i problemi reali della Sardegna e dei sardi. E i referendum di Lombardia e Veneto, dove la Sanità pubblica ha raggiunto livelli ottimali di eccellenza mondiale, sono importanti anche come indicatore per la Sardegna”.

A parere del costituzionalista “si tratta di due referendum a impatto dirompente nella Repubblica italiana: due Regioni efficienti che rivendicano maggiore autonomia per affrontare meglio la crisi. Due Regioni che, sempre nell’ambito di un federalismo cooperativo e non competitivo, dicono grossomodo così: “Vogliamo più competenze perché siamo in grado di gestirle meglio e lo stiamo dimostrando” . Penso che l’effetto di questo referendum sarà dirompente”.

Il professor Antonini ha poi rivolto il suo pensiero alla Scozia, dove forti sono i fermenti di indipendenza:  “Secondo gli studiosi scozzesi non è più la lingua ma la maggiore efficienza di una gestione territoriale e della garanzia dei diritti sociali il pilastro della nuova e crescente richiesta di autonomia. Dall’altra parte c’è la logica centralistica dello Stato e quella del federalismo “clientelare”, che non considera le realtà economiche e sociali dei territori regionali”.

Ha preso poi la parola il professor Andrea Pubusa, ex consigliere regionale della Sardegna, che ha tenuto una relazione sulle “Tendenza della specialità nel confermato quadro del regionalismo”.

Per lo studioso sardo “le ragioni della conferma della specialità sono ancora più forti nel giorno della festa nazionale dei Sardi, in ricordo dell’avvio della cosiddetta Sarda rivoluzione”.

Dopo aver ricordato la forza del pensiero di Angioy, Tuveri e Asproni (“che non sono conosciuti in ambito internazionali solo perché sardi”)  e prima di parlare di Antonio Gramsci, lo studioso ha parlato di Emilio Lussu e del movimento sardista e autonomista alla fine della Grande Guerra.

“Ho ricordato tutto questo percorso storico perché se chiediamo ai Sardi come mai abbiano una propensione all’autogoverno è perché ci sono tutti questi fatti storici e perché per quattro secoli abbiamo avuto dei parlamenti della Sardegna, gli Stamenti. I Sardi hanno una memoria sentimentale di autogoverno, non vogliono autogovernarsi soltanto per un fatto economico, come va molto di moda oggi. Per i Sardi l’autogoverno e la sovranità popolare sono dimensioni dell’anima e tutto il resto è un sub valore. E non è un caso che in Sardegna più che in altre Regioni sia stato strabiliante il No al referendum costituzionale”.

Per il professor Pubusa la specialità “rimane ed è visibilissima perché un Sardo che oggi parte in continente non sa mai se torna nel giorno stabilito. Così come è evidente l’arretratezza delle strutture: un tempo ci voleva un giorno per andare da Cagliari a Olbia, oggi forse un po’ meno ma non molto meno. L’Autonomia, per questo, non può essere che differenziazione, come sostiene il professor Antonini nella sua relazione che abbiamo appena ascoltato. E l’Autonomia deve tendere a superare questi aspetti, questi limiti. Non si può aver paura dell’Autonomia ma dobbiamo anche decidere anche quali sono le responsabilità della classe politica regionale”. 

Dal professor Pubusa sono giunte anche critiche all’attuale classe politica regionale:  “Certo bisogna tornare ai valori forti della Costituzione ma l’Autonomia è specialità non solo rispetto allo Stato ma anche all’interno. In questo senso mi chiedo: quale serietà c’è nel nominare un commissario nelle Province e togliere la rappresentanza popolare? Questo mi ricorda i podestà.

Altra questione è la legge elettorale sarda, che ha escluso forze politiche che hanno raccolto insieme 120 mila voti e non hanno nessuna rappresentanza in Consiglio per effetto di una legge truffa tutta a vantaggio di due grandi forze politiche. Questi sono problemi democratici interni alla Sardegna che devono essere risolti dal Consiglio regionale”.

Infine, il professor Pubusa ha ricordato alcuni studiosi del ‘700 i quali sostenevano che “le costituzioni devono tendere alla felicità dei popoli e non mi pare che in Europa questo stia accadendo. Se andassimo a un referendum sulla permanenza in Europa tutti, tranne i tedeschi, voterebbero per l’exit. Vogliamo interrogarci su questo? Il problema è proprio quello della felicità dei popoli, alla quale dobbiamo tornare a tendere”.

Al termine delle relazioni, è iniziato il dibattito che si è articolato in numerosi contributi.

Il costituzionalista dell’Università di Sassari Omar Chessa ha iniziato il suo intervento sottolineando che, nel momento attuale, “siamo in una parabola discendente, dalla fase di espansione dell’autonomia siamo arrivati al riflusso, ed alla base dei due movimenti c’è la stessa ragione: l’esigenza di una gestione austera della finanza pubblica”.

La differenza sta nel fatto, ha continuato, “che prima si voleva raggiungere decentrando e responsabilizzando i territori sottoposti al controllo diretto dei cittadini, una concessione essenzialmente negativa fondata su competenze proprie e spazi di autodeterminazione; ebbene, il regionalismo differenziato è anche questo ma l’autonomia può essere anche positiva, può essere anche partecipazione a processi decisionali integrati, mentre ora si vuole perseguire l’austerità fiscale comprimendo le autonomie e accentrando, un processo difficilmente può essere arrestato”. Sullo sfondo, ha concluso, “resta una lettura diversa delle origini della crisi finanziaria, che è stata provocata dai privati e dalle banche e non dal settore pubblico”.

Il prof. Paolo Fois, ex consigliere regionale della Sardegna, ha sostenuto la necessità di rimuovere la tesi secondo la quale la specialità sarebbe un privilegio. Una tesi, ha spiegato, “favorita dal fatto che Costituzioni e Statuti danno per scontate le ragioni della specialità senza chiarirle ed è una lacuna che va colmata, perciò dico da internazionalista che alcune misure speciali sono giustificate dalla condizione insulare e che il fattore della diversità culturale è un valore da preservare, soprattutto per quanto riguarda la Sardegna, riconosciuta come minoranza storica dallo Stato: tutti questi elementi devono entrare nel nuovo Statuto”.

L’ex parlamentare sardo Giorgio Macciotta ha criticato i limiti di “una discussione che schiaccia la specialità su temi prevalentemente quantitativi interni alle singole Regioni mette in ombra un grande tema di fondo, cioè che autonomia significa responsabilità mentre le politiche di bilancio nazionali sono l’esatto contrario: la politica finanziaria deve essere decisa all’interno della conferenza Stato Regioni ma in realtà questa norma è stata ridotta ad una consultazione a cose fatte spingendo il sistema regionale ad appiattirsi sui temi quantitativi e impedendo la partecipazione alla riqualificazione della spesa pubblica”. Un meccanismo da contestare, ha auspicato Macciotta, “anche perché rende impossibile la programmazione pluriennale delle risorse, perché tanto dei grandi obiettivi deve occuparsi lo stato, mentre invece le Regioni intermediano quasi il 50% della spesa e devono partecipare”.

Facendo un cenno ai referendum promossi da Veneto e Lombardia Macciotta ha affermato che “non passeranno come acqua fresca soprattutto per il loro surplus fiscale al bilancio nazionale, ed innescheranno fenomeni che rischiano di mettere a repentaglio il sistema delle autonomie”. So di dire qualcosa di impopolare, ha concluso, “ma ritengo che alcune speciali che hanno sul loro territorio una spesa superiore a quella nazionale, se vogliono conservare la specialità, dovranno rinunciare a qualcosa”.

Il consigliere regionale del Friuli Venezia Giulia Alessandro Colauti ha ricordato che la sua Regione beneficiò nel ’91 di una legge per le zone di confine in vista dell’allargamento dell’Europa. Ma non si trattò di un privilegio, ha avvertito, “bensì di una necessità dello Stato che voleva frenare emorragia di dumping fiscale da Austria e Slovenia, così come la fiscalità di vantaggio è in realtà uno strumento di protezione dal dumping”. La verità è che siamo in competizione, ha aggiunto, “e la specialità è minata dalle norme di coordinamento della finanza pubblica, anche se noi non abbiamo debiti e gestiamo sanità e trasporto pubblico locale; per noi il regionalismo ha un futuro e puntiamo sulla piattaforma comune delle speciali che abbiamo messo a punto a Udine”.

Il presidente del Consiglio regionale della Lombardia Raffaele Cattaneo ha detto che la sua Regione aspira alla specialità “che purtroppo viene vista come una fastidiosa anomalia, mentre la battaglia che dobbiamo fare è a difesa della specialità per arrivare ad modello diverso in cui si possano riconoscere tutti”. Per cui, ha suggerito, “bisogna superare il dualismo fra asimmetria e differenziazione per convergere su una proposta che guarda al futuro: il referendum lombardo darà questa indicazione e dovrà allargare il campo, con forte attenzione all’efficienza di strutture pubbliche”. Noi abbiamo, ha concluso, “un grande surplus rispetto alla spesa media nazionale ed è una sperequazione troppo forte perché possa reggere nel tempo, non precludiamoci nessuna strada compresa quella della ridefinizione dei confini regionali (ad eccezione della Sardegna) per tendere al dimezzamento delle le Regioni”

Gianfranco Congiu, consigliere regionale della Sardegna, ha dichiarato che “dal confronto fra esperienze diverse sono arrivate sollecitazioni fondamentali sul nuovo regionalismo”. Tuttavia, ha proseguito, “è chiaro che la fuoriuscita dalla crisi con una Italia appiattita sulle teorie monetaristiche è impossibile e se c’è un soggetto da collocare sul banco degli imputati questo è lo Stato, non per le risorse ma per la sua inefficienza ed è difficile che le Regioni ribaltino questo sistema”. Bisogna quindi andare oltre l’autonomismo, ha auspicato, “per esplorare scenari nuovi entrando in relazione in modo diverso con l’Unione europea, come sta facendo la Sardegna grazie all’accordo con Corsica e Baleari per bypassare le chiusure degli Stati; quello è il banco di prova”.

Andrea Soddu, presidente del Consiglio delle autonomie locali della Sardegna, ha espresso la necessità di rafforzare il dibattito su regionalismo, “non sul piano dell’efficienza economica ma come tema chiave della democrazia; il dibattito in Costituente, del resto, si orientò sugli statuti speciali perché c’era questa sensibilità, non può esistere democrazia senza autonomia, regole con capacità di decisione, coordinato con la tenuta dello Stato”. Tutte le Regioni dovrebbero essere speciali e responsabili delle loro scelte, ha detto ancora Soddu, “perciò chiedo alla politica di interrogarsi sulle le ragioni della crisi, se siano davvero legate alle Regioni o non piuttosto alla moneta unica o al pareggio di bilancio”. Un grande giurista come Guarino, ha concluso, “dice che è stato questo il sistema Europa, non solidale ma economicistico, a determinare la crisi”.

Il presidente del Consiglio regionale del Veneto Roberto Ciambetti ha affermato che “il referendum veneto serve a riformare le autonomie secondo un modello di efficienza e buon governo della cosa pubblica; crediamo che le competenze ora gestite dallo Stato possiamo gestirle noi con risultati migliori”. La nostra iniziativa, inoltre, “vuole portare il dibattito su ciò che come Regione Veneto possiamo fare per il sistema Paese, il contrario di una certa tendenza (anche mediatica) che vuol far ricadere le colpe di tutto sulle Regioni”.

Nelle conclusioni il prof. Massimo Luciani, presidente dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, ha sollecitato tutti “a fare passi avanti in senso ascendente, senza aspettare il verificarsi di chissà quali condizioni politiche”. Le opzioni in campo sono diverse, ha premesso, “ma ritengo che la migliore sia quella che valorizza specialità e asimmetria, in un quadro di autonomia positiva fondata sulla compartecipazione a processi decisionali”. Bisogna vedere con quali strumenti, ha chiarito Luciani ricordando che la riforma costituzionale immaginava un Senato delle Regioni “ma ora comunque, a costituzione invariata, si può fare moltissimo ripensando al ruolo conferenze previsto dall’ art.11 della legge 2/200”. Penso anche, ha continuato, “che il modello più adatto possa tenere in equilibrio elementi di cooperazione e differenziazione, con una competizione verso l’alto in quadro di solidarietà e valorizzazione delle competenze concorrenti con lo Stato, perché il problema fra Stato e Regioni non sta tanto nella definizione delle competenze concorrenti quanto nella tendenza dello Stato ad esercitare competenze esclusive come in materia di finanza pubblica; ognuno deve fare bene il suo mestiere”.

(Af)

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