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Sulla scuola e sull’università bisogna saper ascoltare il movimento degli studenti

Mercoledì mattina al mio arrivo al lavoro in Consiglio regionale ho assistito a una situazione inusuale e piacevolmente sorprendente. I portici antistanti il nostro Palazzo di via Roma sono spesso luogo di occupazioni e di manifestazioni di lavoratrici, di lavoratori, di disoccupati dei vari settori, pubblici o privati, che rappresentano in maniera vivace, con bandiere e striscioni, situazioni di grande tensione e richiedono che il Consiglio e i suoi gruppi politici conoscano e affrontino quelle situazioni. Mercoledì il nostro atrio era occupato da 200/300 giovani che compostamente, seduti per terra, assistevano a una lezione tenuta da un professore con tanto di lavagna e megafono per farsi sentire.
 Né striscioni, né bandiere, né slogan: solo una composta lezione accompagnata dalla distribuzione di un volantino che spiegava le preoccupazioni degli studenti, dei ricercatori, dei dottorandi. Uno spaccato della migliore e più qualificata gioventù della Regione che, come spesso diciamo, costituisce il bene immateriale sul quale costruire il nostro futuro.
 Ciò che colpisce è la serietà e la pacatezza della protesta e la sua originalità nel rapporto con la politica. Nessuna richiesta di incontro, nessun appello a prendere una posizione. Solo una denuncia pubblica di un disagio profondo. Come a Cagliari, accade così in tutta la Sardegna e in tutto il Paese.
 Una serie di provvedimenti governativi e da oggi parlamentari ridefiniscono il sistema educativo e formativo del Paese avendo come filo conduttore il risparmio e il taglio delle spese.
 La nostra scuola elementare, riconosciuta come una buona scuola nel mondo, viene riorganizzata con pesantissimi tagli agli organici e risparmi delle spese (sul personale) in nome di un ritorno alla romantica figura del maestro unico superato pedagogicamente e nei fatti dalla complessità e molteplicità degli insegnamenti, di cui i bambini hanno bisogno e che meglio rispondono ai problemi che le famiglie affrontano nel tempo che viviamo.
 E così via a salire fino all’università, alla ricerca, agli investimenti in essa che, da una scadente posizione nella classifica OCSE, ci fanno diventare ultimi.
 Le preoccupazioni manifestate in queste settimane da studenti, genitori, docenti, ricercatori diventa inquietudine non solo per i singoli contenuti di una cosiddetta riforma ma anche per i modi sbrigativi con cui essa avviene. Nessun confronto, totale chiusura, disprezzo per le opinioni in campo.
 E non si vuole, per quanto mi riguarda, sostenere che bisogna conservare le cose come stanno. C’è necessità di profondi cambiamenti e soprattutto di aggredire il nodo di una percentuale troppo bassa (19%) di giovani fra i 25 e i 34 anni forniti di Laurea, a fronte della media OCSE (33%). È oggettivamente inguardabile il dato che vede solo il 45% degli iscritti alle Università sostenere la tesi, contro una media OCSE del 70%.
 I mali sono profondi, sono più profondi nella scuola media superiore e nella Università e da essi occorre partire.
 Si investe invece come un ciclone l’unico pezzo di scuola che funziona, le primarie, e si taglia indiscriminatamente negli altri forzando soprattutto nelle Università verso processi di privatizzazione (costituzione di Fondazioni) che se possono essere sostenibili laddove c’è un buon sistema economico equivale a un de profundis in quasi tutto il Meridione.
 Molte regioni, e fra esse la Sardegna, hanno sollevato nei giorni scorsi il problema della costituzionalità dei provvedimenti sulla scuola.
 La questione è per me fondata e investe principi non rinunciabili della nostra civiltà e della nostra democrazia.
 La scuola deve cambiare, in essa dobbiamo non limitare le risorse ma farle crescere pretendendo professionalità, criteri valutativi esterni, risultati nella ricerca, apertura di meccanismi per il turn-over che impediscano di stare in cattedra, nel caso delle Università, oltre i 70 anni di età.
 Margaret Thatcher, non proprio una rivoluzionaria, appena al governo ha agevolato il pensionamento degli universitari oltre i 60 anni favorendo uno straordinario ringiovanimento dei docenti. Da noi se va bene si va in cattedra a 50 anni.
 Ma un cambiamento così impegnativo ha necessità di discussione e di consenso ampio: l’esatto contrario di una guerra santa ai presunti fannulloni che fa perdere di vista la vera portata della questione.
 La consapevolezza e serietà delle manifestazioni in corso nel Paese non possono far sfuggire né la profonda inquietudine, né il disagio, né il dissenso diffuso e trasversale, non catalogabile politicamente perché incolore ma proprio per questo non strumentalizzabile da alcuno.
C’è un interesse profondo che alimenta questi movimenti, una richiesta di ascolto e di comprensione che non può essere ignorata dalle Istituzioni, dalle forze politiche e ancora meno da chi ha responsabilità di governo. È una pacifica e pacata pressione che nessuno dovrebbe avere interesse a far degenerare.


Giacomo Spissu – Presidente del Consiglio regionale della Sardegna



 

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