Come emerge dalla ricca documentazione dei processi verbali e dalla produzione normativa – che il Consiglio regionale della Sardegna sta pubblicando nella collana “Acta Curiarum Regni Sardiniae” – fra il 1355 e il 1796 esisteva una relazione stretta e si può dire costituzionalizzata nelle relazioni fra il Regno di Sardegna e il Regno di Aragona prima, tra il Regno di Sardegna e la monarchia sabauda dopo, in cui la sovranità nazionale era riconosciuta e praticata e in ragione della quale il Regno di Sardegna godeva di un rapporto diretto con il sovrano e si vedeva riconosciuta una dignità pari a quella degli altri regni prima appartenenti agli spagnoli e poi ai sabaudi.
I cosiddetti capitoli di corte stipulati tra il re e il Parlamento sardo avevano valore di leggi costituzionali e norme non revocabili se non con il concorso delle due parti.
Giovanni Maria Angioy, insieme ad altri esponenti di spicco del variegato movimento patriottico sardo della fine del Settecento –
i fratelli Domenico, Matteo Luigi e Gian Francesco Simon, il letterato Lodovico Baille, il professore di decretal Michele Obino, il notaio Francesco Cilocco, l’avvocato Gioacchino Mundula, il teologo Francesco Muroni, il sacerdote Francesco Sanna Corda – è stato uno dei principali ispiratori di questa elaborazione teorica e giuridica che ha costituito la base delle rivendicazioni del 1793-96. In questo senso può esser legittimamente annoverato tra i padri dell’autonomia regionale della Sardegna e costituisce ancora oggi una delle figure simbolo della storia della nostra isola.
Come Eleonora d’Arborea ha via via rappresentato fin dall’età moderna l’idea stessa della resistenza dei Sardi alla conquista catalano-aragonese, della civiltà giuridica dei Giudicati e dei valori civili espressi nei capitoli della Carta de Logu, così la figura del giudice Giovanni Maria Angioy ha incarnato, fin dal primo Ottocento, l’intreccio ideale (o forse più idealizzato e più auspicato che reale) tra le istanze di giustizia sociale provenienti dai villaggi infeudati e le aspirazioni autonomistiche e identitarie degli avvenimenti del 1793-96.
Ed è per questi motivi che opportunamente e giustamente la Regione autonoma della Sardegna ha voluto identificare in quel complesso di eventi indicati nelle cronache dell’epoca come la “Sarda Rivoluzione”, uno dei momenti idealmente fondativi della storia della nostra autonomia decidendo con apposita legge di istituire nella data del 28 aprile “Sa die de sa Sardigna” la festa dedicata al ricordo e alla celebrazione solenne di questi eventi.
La figura di Angioy è indissolubilmente legata all’epopea della “Sarda Rivoluzione”. La sua è infatti la personalità di quel tempo che più compiutamente esprime le speranze, le delusioni e perfino le contraddizioni del movimento patriottico che guidò il progetto politico delle Cinque domande e che fu il protagonista della presa di coscienza collettiva dei sardi e delle tumultuose conquiste del 1793-96
Il ciclo di quelle gloriose seppur drammatiche vicende prese avvio dai concitati eventi che si accavallarono tra il 1793 e il 1794 quando i Sardi, mobilitatisi per difendere l’indipendenza del Regno, riuscirono a impedire l’occupazione francese. Fu dietro la spinta di questa vittoria che nella primavera del 1793 gli Stamenti – gli antichi corpi parlamentari rappresentativi della “Sarda Nazione” – si riunirono per esprimere le richieste del Regno al sovrano ed elaborarono quella piattaforma autonomistica delle “Cinque domande” che un’apposita Deputazione alla Corte di Torino presentò al re per richiedere un profondo riequilibrio nei rapporti tra il Piemonte e il Regno sardo. E fu la risposta sostanzialmente negativa alle richieste del Regno che spinse il popolo cagliaritano a dar vita, nella giornata del 28 aprile 1794, a un’ampia sollevazione che si trasformò ben presto nell’ordinata e incruenta cacciata dall’isola del viceré e di tutti i funzionari e militari Piemontesi.
Nei mesi successivi Angioy s’impose come uno degli esponenti più autorevoli di quel movimento patriottico che ingaggiò un duro braccio di ferro con il governo torinese. Fu allora infatti che il governo del Regno fu assunto dalla Reale Udienza che nel nome del sovrano avocò a se tutte le funzioni viceregie.
In questa fase il giudice Giovanni Maria Angioy iniziò a distinguersi per la sua sensibilità di uomo nuovo non solo attento alle riforme invocate con le “Cinque domande” del regno, ma anche incline ad affrontare i problemi sociali della riforma e del superamento della realtà feudale dell’isola.
Come è noto fu proprio l’invio di Giovanni Maria Angioy a Sassari, come alternòs del viceré, a segnare in modo indelebile la vicenda umana e civile dell’autorevole magistrato e a farne contemporaneamente il simbolo della lunga e sofferta battaglia per il riscatto dei contadini sardi dall’oppressione feudale, dalla tirannia dei barones.
Fu infatti all’inizio del 1796, all’indomani della conquista di Sassari ad opera di un esercito di migliaia di vassalli e di contadini armati, che invocavano l’affrancamento del Logudoro dai vincoli feudali, che la personalità dell’Angioy apparve l’unica capace di ricondurre a un’equa pacificazione le campagne del Capo settentrionale dell’Isola. Da diversi mesi, ormai, le comunità infeudate dei villaggi del Logudoro avevano preso a dichiarare, attraverso atti pubblici e solenni collettivamente sottoscritti dagli amministratori locali al cospetto di un notaio, di non voler più riconoscere alcun feudatario e di esser disposti a riscattare, anche dietro un equo pagamento, le loro libertà fondamentali. E fu proprio di fronte alle ragionevoli rivendicazioni dei contadini del Capo settentrionale del Regno che il giudice Angioy, facendosi interprete di queste istanze e prefiggendosi di richiederne l’accoglimento al governo viceregio, decise di prendere la guida di quell’ampio esercito contadino e di dirigersi verso la capitale del Regno.
Com’è noto l’ardita impresa dell’alternòs fu stroncata a Oristano dove le truppe miliziane sarde reclutate dagli Stamenti e dal viceré dispersero il combattivo, ma disorganizzato, movimento contadino capeggiato da Giovanni Maria Angioy.
Si apriva soprattutto nei villaggi del Capo settentrionale dell’isola un lungo e buio periodo di durissima repressione e parallelamente prendeva avvio una sistematica persecuzione di quanti in qualunque modo si fossero compromessi con il partito angioiano.
Per l’alternòs la questione dell’autonomia del Regno restava strettamente legata al superamento del feudalesimo e alla formazione di un nuovo ceto di proprietari terrieri, attivi conduttori dei loro fondi e non più parassitari amministratori di rendite e tributi.
La sconfitta del movimento antifeudale di cui Angioy si era fatto portavoce avrebbe però inciso pesantemente nell’intera storia della Sardegna contemporanea, che soltanto negli anni trenta e quaranta dell’Ottocento, con molti decenni di ritardo rispetto alle altre regioni europee, avrebbe iniziato a liberarsi, con costi politici e sociali elevatissimi, del peso divenuto ormai insopportabile di un anacronistico e soffocante sistema feudale.
Fu negli anni immediatamente successivi a quella sconfitta del giugno del 1796 che Angioy guardò con simpatia alle idee di libertà e di uguaglianza della Francia repubblicana e napoleonica e decise con un piccolo gruppo di altri esuli sardi di rifugiarsi a Parigi, nella speranza che dalla Grande Nazione potesse venire infine la spinta decisiva per liberare l’isola dall’oppressione feudale e dal dispotismo sabaudo.
Nel 1984 il Consiglio regionale della Sardegna aveva stabilito di porre una lapide a Parigi nella casa dove l’esule sardo aveva vissuto i suoi ultimi anni. Purtroppo, come le ricerche misero bene in evidenza, le costruzioni degli antichi quartieri dove Angioy aveva abitato e gli stessi antichi cimiteri della capitale francese erano stati distrutti durante le grandi ristrutturazioni urbanistiche degli ultimi anni del periodo napoleonico e del secondo impero.
Oggi, in occasione del bicentenario della sua morte, sopraggiunta durante l’esilio parigino il 23 febbraio 1808, il Consiglio regionale della Sardegna celebra non solo il fautore delle rivendicazioni autonomistiche ma anche il paladino delle libertà civili e il difensore degli oppressi.
I Sardi ricordano dunque con sentimenti di particolare riconoscenza e gratitudine un uomo che alla patria sarda sacrificò i propri affetti, la propria carriera e le proprie sostanze, lasciando ai posteri, insieme a un formidabile patrimonio ideale, un messaggio e una testimonianza autentica di coerenza intellettuale e di libertà.
Ed è per questi motivi che mi piace oggi celebrarne la grandezza e collegare idealmente l’odierna ricorrenza e questa solenne cerimonia ad un altro appuntamento e ad un’altra storica data per il popolo sardo: il testo costituzionale dello Statuto di Autonomia conquistato 60 anni fa con la nascita della nostra Repubblica e a cui lunedì 25 dedichiamo, in questa stessa aula, una riflessione, un bilancio e la ricerca delle ragioni, ideali, identitarie, sociali e politiche che rendono necessaria una sua revisione.