Cagliari, lì 18 aprile 2015
Mentre in Europa si assiste a processi di rivendicazione sempre più forti di maggiore autonomia e sovranità, che vedono coinvolti in prima persona i corpi elettorali, in Italia, in controtendenza, si persegue un nuovo centralismo che attraverso l’abolizione delle province e la trasformazione del senato in un organismo non eletto oggi investe le Regioni.
Le Regioni sono un’invenzione della Costituzione e sono state pensate come uno strumento per trasformare l’Italia da stato centralizzato in uno stato che riconosce e promuove le autonomie (art. 5 Cost.). Si è trattato di un grosso cambiamento di tendenza per il nostro paese che fin dal suo nascere era stato organizzato in maniera centralizzata, e che aveva ancor più accentuato questa sua tendenza sotto il regime fascista.
Non più di tredici anni fa abbiamo attraversato una fase di costituzionalismo caratterizzata dalla crisi del modello stato centrico che ha portato alla riforma del titolo V del 2001 e oggi, sulla base di spinte opposte, o forse sulla base della stessa crisi dello Stato, ma soprattutto sulla base di esigenze economiche e finanziarie più che istituzionali, le Regioni ordinarie vedono, invece, ribaltata la scelta effettuata dal legislatore nel 2001 con un depotenziamento della propria competenza legislativa esclusiva e l’eliminazione della competenza concorrente. Un declassamento del legislatore regionale che attribuisce allo Stato anche la possibilità di intervenire nelle aree di competenza residuale (cosiddetta clausola di salvaguardia).
Con la nuova riforma del titolo V proposta dal governo si ritorna all’impianto precedente alla riforma del 2001 dove le regioni erano state pensate, invece, come titolari della competenza legislativa generale mentre si configurava per lo stato una competenza residuale.
Certo il sistema federale è nato già malato perché, caratterizzato dal trasferimento di potere e funzioni dallo Stato alle periferie (e non come nell’ esperienza statunitense da una cessione di sovranità dalle periferie allo stato centrale), non è stato accompagnato da un reale sistema di raccordo tra il centro e la periferia; ciò che andrebbe garantito è una reale partecipazione delle regioni ai processi decisionali centrali, infatti, i sistemi federali realmente funzionanti si basano su meccanismi di co-decisione e su sistemi di raccordo tra i livelli di governo.
Ma la riforma, piuttosto che impegnarsi nel correggere gli elementi che hanno impedito al federalismo di funzionare, lo cancella con la scusa dell’efficienza; e il governo sceglie ancora una volta di accentrare le decisioni piuttosto che condividerle con i livelli locali.
E così anche la riforma del Senato è ben lontana da aver risolto il problema perché il nuovo senato non sarà un organo di rappresentanza territoriale, i senatori si raggrupperanno per appartenenza partitica e non in funzione degli interessi del territorio di appartenenza.
Prima le Province poi il Senato e ora le Regioni sono diventati capro espiatorio dei mali collettivi, la crisi della democrazie dovrebbe essere combattuta con più democrazia non con riforme parziali e disorganiche. La nostra Costituzione è stata scritta da un‘ assemblea costituente ed è intollerabile che venga modificata a fronte delle spinte più disparate dal governo di turno senza un reale disegno e reali esigenze.
Certo, a prima vista, la riforma proposta non indebolisce la nostra autonomia ma anzi sembrerebbe rafforzarla perché, da un lato, non viene toccato l’art. 116 della costituzione, che riconosce “forme e condizioni particolari di autonomia secondo uno statuto speciale adottato con legge costituzionale”, e, dall’altro, viene prevista una clausola di salvaguardia che fa salve le conquiste di maggiori autonomia derivanti dal titolo V così come modificato nel 2001.
Inoltre la clausola finale, che prevede che la riforma non si applica alle regioni a statuto speciale sino all’adeguamento dei rispettivi statuti sulla base di un intesa fra stato e regione, introduce un elemento nuovo, quello dell’intesa forte, dal quale paradossalmente il nostro autonomismo speciale risulta rafforzato, per cui il nostro statuto non potrà essere modificato se non con il consenso della Regione.
Ma è evidente che si tratta di un rafforzamento solo apparente in quanto l’autonomia è inevitabilmente più fragile nel quadro di un sistema regionale complessivamente indebolito.
Questo vale tanto più per una Regione come la Sardegna debole sotto un profilo economico, demografico e politico che non ha la forza di gestire in modo efficace il rapporto bilaterale e negoziale con il governo nazionale. Nel sistema differenziato a rete gli interventi unitari sono l’eccezione giustificata dalla necessità di garantire a tutti i cittadini un’esistenza collettiva libera e dignitosa, in quello accentrato è esattamente il contrario tutti gli interventi sono unitari e vanno giustificati quelli differenziati.
Il rapporto univoco e bilaterale tra la Sardegna e lo Stato, che ha dimostrato tutta la sua debolezza fin delle origini, ha visto la regione impegnata in un combattimento impari che l’ha isolata nei confronti del movimento regionale complessivo e che ha prodotto un ritardo culturale e istituzionale depotenziando l’autonomia effettiva. Paradossalmente la Sardegna e tutte le regioni speciali con le norme di attuazione hanno avuto in ritardo le stesse funzioni delle regioni ordinarie. La causa di questo fenomeno in apparenza paradossale, ma in realtà connaturato con la specialità, è che mentre le regioni ordinarie si sono presentate unite al confronto con lo stato e quindi hanno messo in campo un forte potere contrattuale, le regioni speciali hanno negoziato i trasferimenti singolarmente. Quindi in una condizione di grande debolezza che ha portato all’inevitabile prevalenza delle logiche centralistiche dell’amministrazione statale.
Solo rafforzando il sistema federalista potremo avere la forza di valorizzare la nostra autonomia speciale tanto più considerando che il rispetto della specialità sembra dettato non da vera convinzione ma dalla necessità di fare in fretta, considerato l’iter costituzionale previsto per la revisione degli statuti speciali.
E infatti se da un lato la dimensione pattizia appare per la prima volta nel testo della costituzione confermando la validità delle norme di attuazione fin qui adottate, dall’altro è lecito chiedersi in che modo evolverà il processo di revisione degli Statuti speciali. La riforma costituzionale lo indica come un passaggio dovuto, anche se non pone un termine tassativo.
Occorre dunque che la Regione predisponga, con la dovuta prudenza e con particolare attenzione alla tempistica, i percorsi più utili per la riforma o il rilancio della autonomia speciale tenendo conto di queste novità e del momento storico che viviamo.
Personalmente non mi hanno stupito le esternazioni del governatore della Toscana, Enrico Rossi, perché sono il segno della fase che il paese attraversa, una fase che mette in discussione la stessa sopravvivenza del regionalismo e che spinge le regioni ordinarie, che annaspano e non riescono a reagire alle spinte neo – centraliste, ad individuare nella specialità un ingiustificato privilegio da combattere.
Lasciatemi solo dire che i ragionamenti fatti da Rossi, facilmente confutabili, denotano la non conoscenza della storia stessa dell’Italia oltre che delle cause storiche di carattere identitario e\o economiche che hanno portato al riconoscimento delle autonomie, cause ovviamente diverse per ogni regione autonoma e proprio per questo speciali. Gli Statuti speciali sono patti costituzionali tra cinque comunità e la comunità della Repubblica e costituiscono parte fondante della stessa Istituzione repubblicana.
È evidente che non arretreremo di un passo sulla specialità; l’esperienza autonomista che si prospettò sin dai sui primi atti come l’occasione per il riscatto della Sardegna dai secoli di abbandono e sfruttamento e per l’avvio di una stagione di crescita e di progresso di cui la stessa popolazione sarda potesse essere protagonista, è tutt’altro che conclusa.
La specialità della Sardegna mantiene intatte tutte le motivazioni da cui trae origine; talune sono destinate a permanere e riguardano la evidente differenza geografica, legata alla insularità e ai riflessi che questo comporta sul piano economico, culturale, dell’ambiente; talune di queste specificità sono destinate ad essere recuperate o colmate o compensate, altre richiedono di essere valorizzate e salvaguardate; in generale è difficile concepire, in moltissimi ambiti, politiche efficaci – anche se di competenza statale – che non abbiano carattere regionale, non siano cioè adeguate e mirate alla Sardegna.
Si pensi fra tutte alle politiche infrastrutturali: la Sardegna è terz’ ultima nelle graduatorie di viabilità e trasporti e nonostante ciò è esclusa da tutti i piani di infrastrutturazione nazionali, non partecipa alle politiche interregionali, non usufruisce ad esempio del metano perché non collegata al continente.
Differenze che investono in modo diretto in diritti dei cittadini sardi alla mobilità, alla parità di condizioni di partenza per le iniziative economiche, alla possibilità di usufruire di servizi pubblici adeguati se non aventi sede in Sardegna ecc.
L’insieme di queste questioni evidenzia la necessità di politiche a forte caratterizzazione regionale. Servono infatti interventi mirati, calibrati sulle specifiche esigenze dell’Isola e particolarmente incisivi, dato che difficilmente politiche a dimensione nazionale (e tanto meno interregionale) producono riflessi adeguati.
Certo si pone il problema di quale sia la via da seguire.
Da anni il dibattito regionale evidenzia le insufficienze dello Statuto del 1948, sia per il suo carattere riduttivo originario, sia per il quadro delle funzioni oggi inadeguato rispetto agli obiettivi, sia per la intervenuta trasformazione del quadro istituzionale considerato soprattutto il ruolo ormai svolto dalle autonomie in tutto il territorio nazionale ed il peso sempre maggiore di organi extrastatali ed europei.
Insufficienza che non significa necessità di superamento ma richiesta di maggiori poteri e maggiore autonomia perché, come dicevo, è comune e ribadita la convinzione che le ragioni della specialità permangono e sono anzi rafforzate e necessitano oggi come ieri di politiche con forte accentuazione regionale.
Politiche e dunque poteri con finalità di compensazione, ad es. per i trasporti passeggeri e merci, politiche attive specifiche ad es. di infrastrutturazione, poteri autonomi di organizzazione e diffusione dei servizi nel territorio che considerino i caratteri geografici, la scarsa densità della popolazione e la sua concentrazione in alcune ristrette aree costiere – si pensi, un esempio per tutti, alla dispersione scolastica dove raggiungiamo il triste primato del 25% di abbandoni a fronte di un dato nazionale del 17% che dimostra tutta l’inadeguatezza di criteri nazionali che mal si attagliano alla nostra Regione. Poteri con finalità di tutela e valorizzazione legati alle identità linguistica e culturale e alla specificità del territorio e dell’ambiente.
La Sardegna che non si è mai sottratta ai suoi doveri di solidarietà nei confronti del Paese chiede una reale integrazione economica e sociale, una reale integrazione politica e istituzionale e il rispetto dell’identità etnico-linguistica, culturale, insomma nazionale.
Ebbene sono arrivato alla convinzione che, in questo momento, la strada più agevole e più concreta per raggiungere il risultato non sia la riscrittura dello statuto ma il rilancio delle forme pattizie di attuazione, a condizione di seguire un progetto consapevole di specialità. L’autonomia speciale – in particolare quella della Sardegna – si gioca in questa fase non tanto, come talora in passato si è ritenuto, in un “di più” di competenze e risorse; ma nel necessario adeguamento alla specificità del territorio e della Regione alle diverse politiche; ciò può richiedere in taluni casi un diverso livello di competenze rispetto alle Regioni ordinarie ed un conseguente regime differenziato sul piano finanziario, ma non è l’aspetto più qualificante della autonomia.
Ovviamente questo non può prescindere da un progetto consapevole di specialità, dal rilancio di una vertenza forte su tutti i temi citati perché è evidente che la specialità prima che una questione di diritto è una questione politica.
E sono convinto che sia utile ripensare ad un maggior coinvolgimento del Consiglio sin dalla fase delle linee di indirizzo per la proposta alla Commissione paritetica, come già avveniva nella fase autonomistica dell’ Intesa (anni 70 / 80).
Oggi l’autonomia speciale sarda sembra aver smarrito le ragioni che la giustificano, ed il progetto di superamento della situazione secolare di svantaggio economico e sociale che essa esprimeva va ripreso e attualizzato.
Pertanto la legge statutaria deve assumere proprio il rinnovamento della specialità come suo progetto legittimante. Nella convinzione che la specialità è non tanto una condizione da difendere quanto un risultato da conseguire, l’esito di un processo fondamentalmente endogeno.
Il progetto di specialità non può essere rigido ma disponibile ad essere sviluppato con l’interazione e il dialogo tra i molteplici e diversi soggetti sociali e politici, un programma aperto agli sviluppi incerti della democrazia pluralista. Deve essere un progetto aperto a contenere le esigenze di una società complessa e dinamica deve essere un progetto/processo che inneschi un processo di conoscenza e valorizzazione dell’identità e delle risorse regionali e locali, che coinvolge tutte le istituzioni del popolo sardo. In questo momento di delegittimazione della politica è ancor più necessario portare la discussione fuori dal palazzo.
È in questo processo che la legge statutaria dovrà ridisegnare anche gli equilibri tra l’esecutivo e l’organo parlamentare che mostrano oggi tutti i loro limiti. E badate lo dico facendo autocritica, non è colpa della giunta, l’ esecutivo occupa gli spazi che il parlamento gli da. L’assemblea si deve riappropriare di quelle che sono le proprie funzioni legislative.
Così come sono convinto della necessità che vada riscritta la legge elettorale perché è intollerabile, in una regione dove l’ astensionismo ha superato in alcuni collegi il 50 %, che il sistema elettorale escluda una forza politica che ha superato il 9% favorendo comunque una frammentazione interna alle coalizioni che non garantisce la governabilità.
Per tacere della scarsa equità in termini di rappresentanza territoriale e della vergogna della mancata previsione della doppia preferenza di genere.
Inoltre siamo davanti ad un passaggio politico importante, l’abolizione delle province ci ha messo davanti alla necessità di avviare il riassetto istituzionale della regione, il Disegno di legge 176 sul riordino del sistema delle autonomie locali in Sardegna può essere una grande occasione per la Sardegna a patto di essere capaci di non replicare a livello locale gli errori del governo nazionale e di costruire un sistema che sia realmente in grado di arginare il centralismo regionale.
Dobbiamo dare maggior ruolo agli enti locali e allora credo che sia giusto valorizzare le unioni dei comuni, purché queste siano facilitate e su base volontaria. Ma da ex amministratore locale posso affermare con assoluta certezza che le Unioni dei comuni non sono in grado di svolgere oggi le funzioni attualmente affidate alle province e mi riferisco alla viabilità, alla manutenzione nelle scuole e in particolare alle competenze di tipo ambientale.
Sono indispensabili degli organismi sovra – comunali che, pur con una denominazione diversa, possono essere identificati con le vecchie province e i rispettivi ambiti territoriali. La discussione deve riguardare in particolare l’individuazione delle funzioni da affidare agli ambiti intermedi oltre che quali e quanti ambiti ottimali siano necessari.
In merito alla costituzione dell’Area metropolitana di Cagliari, alla cui costituzione sono favorevole, mi chiedo perché discostarsi a tutti i costi dal modello nazionale se questo non comporta equilibri migliorativi. Le linee guida nazionali sono abbastanza chiare e prevedono che le aree metropolitane debbano corrispondere agli ambiti provinciali. Questo consentirebbe di attrarre risorse aggiuntive da destinare non solo alla città del capo di sotto ma all’intero territorio compreso nell’ ex provincia cagliaritana.
Per cui pensare una città metropolitana coincidente con Cagliari e la cinta urbana dei comuni contermini e non corrispondente con il territorio della Provincia storica significa accentuare ancora di più la distanza tra il capoluogo e tutto il resto della Regione; e allora, forse, bisogna riflettere se sia più utile che quelle risorse vadano centralizzate solo sull’urbe o se non sia meglio distribuirle su un territorio più vasto che andrebbe a costituire il nuovo ambito sovra – comunale che va poi disegnato per le altre aree della regione e che potrebbe coincidere con quello della provincia storica di Cagliari. Abbiamo bisogno di scelte che servano a ridurre quelle distanze così evidenti tra le zone interne e le zone costiere, tra Cagliari e tutto il resto della regione.
Penso, inoltre, che all’area metropolitana di Cagliari debba essere affiancata l’area metropolitana del nord Sardegna con capofila la città di Sassari. Esiste un’area vasta ben delimitata e già riconosciuta dall’Unione europea e il territorio e gli amministratori locali devono essere uniti e chiari nel rivendicarla sino in fondo e senza ambiguità.
Un corpo troppo piccolo con una testa ab-norme è destinato a perire e allora perché non utilizzare la nostra autonomia per costruire un modello che sia realmente corrispondente alle esigenze della nostra Terra.
Gianfranco Ganau
Presidente Consiglio regionale della Sardegna