Onorevoli colleghe e colleghi, Presidente Pigliaru, assessore e assessori,
È con grande e sincero piacere che do il benvenuto alla Presidente Boldrini a nome di tutto il Consiglio Regionale e di tutti i Sardi.
Presidente, La ringrazio per aver voluto questo momento di incontro e confronto con il Parlamento dei Sardi all’interno della sua visita nella nostra terra, dove conoscerà un popolo orgoglioso della propria identità, della propria cultura e della propria storia, fieramente e convintamente autonomista.
La nostra, Presidente Boldrini, è oggi una terra ferita dove la crisi economica, che ha colpito la nostra regione in maniera più profonda rispetto al resto del territorio nazionale e che oggi ha assunto caratteri drammatici dal punto di vista sociale, sta profondamente minando la tenuta e l’organizzazione della stessa struttura della società sarda. Crisi che sconta i limiti di scelte del passato, dimostratesi errate, come quella della monocultura industriale e l’incapacità della politica di costruire un futuro alternativo, di risolvere problemi e ritardi storici quali quelli della continuità territoriale, dell’infrastrutturazione strategica e della disponibilità di energia a basso costo.
La nostra, Presidente Boldrini, è una terra amata, dalla quale oggi si emigra come 60 anni fa con un’unica differenza che oggi a farlo sono anche i nostri giovani laureati, il nostro futuro. Una terra dove la popolazione invecchia ed esplode la questione delle zone interne sempre più spopolate con previsioni demografiche di riduzione della popolazione residente sino a quasi un terzo rispetto a quella attuale nei prossimi 50 anni.
Questo Consiglio Regionale si riunì per la prima volta il 28 maggio del 1949, secondo in ordine di tempo solo a quello Siciliano.
Iniziava allora la storia della speciale autonomia della Regione Sardegna che per la prima volta aveva organi di espressione democratica dei Sardi e la possibilità di concorrere a decidere il proprio futuro.
L’esperienza autonomista si prospettò sin dai sui primi atti come l’occasione per il riscatto della Sardegna dai secoli di abbandono e sfruttamento e per l’avvio di una stagione di crescita e di progresso, portando ad esprimere e rappresentare, pur nelle evidenti e sentite diversità locali, le ragioni di un comune sentire dell’essere sardi.
L’istituzione democratica regionale, disegnata proprio sul modello parlamentare e regolamentare della Camera dei Deputati, si è radicata profondamente diventando riferimento di tutte le istanze politico – istituzionali, trovandosi spesso sovraccaricata di un eccesso di responsabilità rispetto a compiti e decisioni che lo Stato, ieri come oggi, trattiene e non condivide.
La Sardegna fu protagonista insieme alle altre Regioni speciali del nuovo faticoso cammino delle autonomie regionali e tracciò il percorso per l’affermarsi, dopo oltre vent’anni, delle Regioni ordinarie che oggi, dimentiche della storia, troppo spesso confondono l’esigenza di difendere e confermare la specialità come una fastidiosa anomalia e un ingiustificato privilegio.
Il rapporto univoco e bilaterale tra la Sardegna e lo Stato, che ha dimostrato tutta la sua debolezza fin delle origini, ha visto la regione impegnata in un combattimento impari che l’ ha isolata nei confronti del movimento regionale complessivo e che ha prodotto un ritardo culturale e istituzionale, depotenziando l’autonomia effettiva.
Paradossalmente la Sardegna e tutte le regioni speciali con le norme di attuazione hanno avuto in ritardo le stesse funzioni delle regioni ordinarie.
Da anni il dibattito regionale evidenzia l’ insufficienza dello Statuto del 1948, sia per il suo carattere riduttivo originario, sia per il quadro delle funzioni oggi inadeguato rispetto agli obiettivi. Insufficienza che non significano, Presidente, necessità di superamento ma richiesta di maggiori poteri e maggiore autonomia perché è comune e ribadita la convinzione che le ragioni della specialità permangano e siano anzi rafforzate, necessitando oggi come ieri di politiche con forte accentuazione regionale.
Politiche e dunque poteri con finalità di compensazione, ad es. per il superamento dei limiti dell’insularità, politiche attive specifiche, dal momento che l’Isola nonostante abbia l’indice infrastrutturale delle ferrovie più basso d’Italia, è di fatto esclusa dai grandi progetti (spesso a dimensione europea) che passano per il Continente; poteri autonomi di organizzazione e diffusione dei servizi nel territorio che considerino i caratteri geografici e la scarsa densità della popolazione, si pensi – un esempio per tutti – alla dispersione scolastica dove raggiungiamo il triste primato del 25% di abbandoni a fronte di un dato nazionale del 17%, che dimostra tutta l’inadeguatezza di criteri nazionali che mal si attagliano alla nostra Regione. Poteri con finalità di tutela e valorizzazione legati alle identità linguistica e culturale e alla specificità del territorio e dell’ambiente.
La Sardegna che non si è mai sottratta ai suoi doveri di solidarietà nei confronti del Paese chiede oggi, come 66 anni fa, una reale integrazione economica e sociale, una reale integrazione politica e istituzionale e il rispetto dell’identità etnico-linquistica, culturale, insomma nazionale.
Perché, Presidente, il principio di solidarietà non può essere applicato in senso unilaterale. Non è più sostenibile che la Sardegna sopporti il 61% per cento delle servitù militari, o che si pensi alla Sardegna come al più vasto carcere d’Italia o come deposito di scorie nucleari; non è più tollerabile il ricatto che da decenni mette in contrapposizione tra loro diritti costituzionali inalienabili, come quelli al lavoro, alla salute e ad un ambiente salubre, né che la Sardegna abbia una percentuale di disoccupazione giovanile del 54,2% e di disoccupazione femminile del 57%.
Potrei continuare in questo lungo e triste elenco, che dimostra se ce ne fosse bisogno, come la questione sarda sia tutt’altro che risolta.
Noi, Presidente, immaginiamo il nuovo Statuto come un rinnovato patto che coinvolge in responsabilità comuni lo Stato e la Regione, perché riteniamo che la fase difficile che il Paese sta attraversando non possa giustificare in alcun modo il superamento dell’autonomia e della specialità.
Oggi la crisi economica sta rafforzando le politiche centraliste con sottrazione dell’esercizio di funzioni dalla periferia verso il centro, e in alcuni casi dalla stessa potestà statale ad altra sovranazionale.
L’urgenza é istituzionale oltre che economica; bisogna accelerare il processo legislativo senza indebolire la democrazia, l’anti parlamentarismo ora individua nel Senato il capro espiatorio dei mali collettivi e nelle Regioni la causa delle inefficienze amministrative.
Certo, la democrazia rappresentativa ha un difetto, consuma risorse materiali e spirituali ma é evidente che il valore della rappresentanza è un bene in sé che non può essere sacrificato sull’ altare dei costi.
Il vero costo della politica é quello di scelte sbagliate prese per anni inseguendo il consenso elettorale e piegandosi ad illusioni semplicistiche ma popolari. Per riconciliare le istituzioni con i cittadini non serve meno “politica” ma piuttosto la buona politica.
Gli organismi di secondo grado che andranno a sostituire il Senato e le province comporteranno un’accentuazione del peso dei partiti piuttosto che di quello degli elettori e questo, se da un lato risponde alla forte richiesta di diminuzione del numero degli eletti e dei costi della politica, dall’ altra umilia la richiesta di partecipazione democratica.
Senza tralasciare il fatto che per i Sindaci e i Presidenti é già difficile svolgere il loro lavoro, figuriamoci trovare tempo per un serio impegno in organismi di secondo livello, siano essi sovracomunali o statali. Per tacere della riforma elettorale che prevede un sistema fortemente maggioritario con capilista bloccati. E’ evidente che il filo conduttore é quello di una riduzione grave degli spazi di rappresentanza, e dunque di democrazia, e che si sta percorrendo un crinale fortemente pericoloso.
Nella stessa ottica si inserisce la riforma del titolo V che piuttosto che impegnarsi nel correggere gli elementi che hanno impedito al federalismo di funzionare lo cancella con la scusa dell’efficienza. Il Governo sceglie ancora una volta di accentrare le decisioni piuttosto che condividerle con i livelli locali attraverso il depotenziamento della competenza esclusiva delle regioni ordinarie e l’eliminazione di quella concorrente. Un declassamento del legislatore regionale che attribuisce allo Stato anche la possibilità di intervenire nelle aree di competenza residuale, la cosiddetta clausola di salvaguardia.
Dopo appena 14 anni assistiamo all’inversione di quel processo di federalismo avviato con la riforma del titolo V. Certo, a prima vista, la proposta sembrerebbe non mettere in discussione la nostra autonomia e non indebolirla, anzi ad una valutazione superficiale si potrebbe pensare addirittura ad un suo rafforzamento.
Ma è evidente che si tratta di un rafforzamento solo apparente in quanto l’autonomia è inevitabilmente più debole nel quadro di un sistema regionale complessivamente indebolito.
Questo vale tanto più per una regione come la Sardegna, debole sotto un profilo economico, demografico e politico che ha un peso minore di altre nel rapporto bilaterale e negoziale con il governo nazionale.
Forti della nostra specialità abbiamo il dovere di guidare le rivendicazioni delle regioni ordinarie perché solo all’interno di un sistema regionale differenziato la nostra specialità diventa un elemento da valorizzare e non un privilegio da difendere contro tutti.
In questo percorso diventa fondamentale il recupero della centralità delle assemblee legislative, espressione della sovranità popolare.
Ho personalmente apprezzato il richiamo al fondamentale valore dell’istituto parlamentare nel sistema di equilibrio democratico, la crisi e la necessità di fare in fretta non può diventare scusante per la distruzione del sistema parlamentare e questo vale per il centro come per le periferie.
Il consiglio regionale sardo ha particolarmente avvertito e sofferto la perdita di ruolo del legislativo, trovandosi stretto tra le attese suscitate dall’autonomia e la progressiva crisi dell’istituzioni parlamentari.
Gli iter legislativi possono essere semplificati e devono trovare strumenti di maggiore celerità ma guai a pensare il percorso di formazione delle leggi e di confronto con l’esecutivo come un intralcio. Il Parlamento Sardo al pari di quello Italiano si trova troppo spesso stretto fra la necessità e l’urgenza di decidere e l’impossibilità di allargare il dibattito, favorire il confronto, esprimere la varietà delle posizioni per arrivare alla migliore soluzione.
L’equilibrio dei poteri tra organo legislativo ed esecutivo è sicuramente ancora un tema da risolvere, in particolare andrebbero potenziati gli strumenti di indirizzo e di controllo dei parlamenti sugli atti degli organi esecutivi, ed introdotti strumenti di verifica e controllo sulle ricadute e l’efficacia delle azioni definite da norme legislative.
La verità è che oggi è la democrazia a essere entrata in crisi, e questo proprio nei paesi centrali dove era maggiormente consolidata; una crisi caratterizzata da patologie che colpiscono la partecipazione, vista la crescita preoccupante dell’astensionismo – che in Sardegna alle ultime regionali ha raggiunto in alcuni territori la percentuale del 56 per cento – e la rappresentanza, visto che i cittadini si sentono sempre meno rappresentati dagli eletti.
La crisi della democrazia deve essere combattuta con più democrazia, non con riforme parziali e disorganiche, con maggiori autonomie e non con un rafforzato centralismo.
Di fronte a questo, Presidente Boldrini, siamo pronti a condividere una battaglia comune per rimettere al centro della politica la dignità della funzione legislativa.
Cagliari 20 marzo 2015
Gianfranco Ganau
Presidente Consiglio regionale della Sardegna